La ‘Terra Promessa’ alla ricerca dei sogni del vocalist Gianluca “Luke” Paterniti e del chitarrista Diego “Blef” Dragoni non è mai stata così vicina, a cinque anni dall’esordio la band italiana degli
Smokey Fingers piazza un lavoro maturo, graffiante, il southern rock sborda i perimetri esterni del passato e raggiunge un fuori campo in
Promised Land, incredibilmente visibile.
Immagini dagli Stati Uniti, di un viaggio con lo zaino in spalla alla ricerca di un altrove e
Black Madame mostra subito che Promised Land non nasconde segreti senza vita, ma affollata di memorie del passato del rock, respira dalla convincente
Rattlesnake Trail, le chitarre sono elementi rappresentati con un tratto malinconico che diventa cupo e ancor più inquietante grazie a un accompagnamento sonoro martellante, la piacevole scia sudista di
The Road Is My Home sigla l'intero disco, solcato da lame luminose (
Damage Is Done e
Floorwashing Machine Man), segnali e indizi fendenti (
The Basement, i due volti di
No More alla dolce
Last Train), pronti a essere riattivati dal sistema nervoso di quell’ascoltatore narcotizzato oramai dalla Tv, potrebbe agguantarli con uno scatto improvviso, chissà.
Nel finale
Stage,
Thunderstorm e
Proud & Rebel sono brani che valgono molto, hanno molto da dare gli Smokey Fingers, ma nel mondo in cui vivono, l’Italia, le loro abilità non sono adeguatamente stimate.
Purtuttavia, non si lasciano abbattere. Lavorano, hanno famiglia, quando è possibile continuano ad amare l’America e a suonare.
Ecco manca solo l’America, la meriterebbero.