Il cavallo abbandonato nel deserto in copertina da un’idea della libertà dell’American West che non ha bisogno di date precise ed è anzi atemporale nella sua essenza più intima, al contrario della “terra sconosciuta” nelle parole di Amleto, “da dove non torna mai nessuno”, si colgono echi dotati di una forza e persistenza propria che
Willy Vlautin oramai scrittore di romanzi e ‘penna’ in una seconda band (i
Delines) riporta come testamento finale nei
Richmond Fontaine, per seguire una sorta di linea retta a senso unico che separa con una fenditura profonda la notte e il giorno, dove coesistono col sinuoso affacciarsi dei ricordi, luminosi, e buoni pur nella loro essenza di dolore.
Nessuno come loro ha saputo raccontare quell’oscurità che pervade la normalità di persone che vivono ai margini della società, completamente assorbiti dal senso di disagio in grado di bruciare e di spegnere l'esistenza di un’adulto, tra la malinconia dell’Alt. Country e lo spazio del folk, qualche leggera fiammata nel rock ad accompagnare uno stile rigoroso di forte presa emotiva.
Tra strip clubs e bettole di periferie sulla strada che porta da Portland a Tulsa, c’è solo polvere e terra, e il tocco morbido alla steel guitar di Paul Brainard e le tastiere di Jenny Conlee che entrano da
Leaving Bev's Miners Club at Dawn, concorrono alla costruzione di attimi di un silenzio vivo in
Three Brothers Roll Into Town, come un respiro in
The Blind Horse, ci pongono momentaneamente in empatia con una realtà altrimenti soffocante in
You Can't Go Back If There's Nothing to Go Back To, dove spunta una splendida
Wake Up Ray la storia di un ventenne ribelle ormai adulto e soffocato dalla vita, la fuga per cercare di iniziare altrove per proseguire il suo viaggio verso l'ignoto, perchè ci sarà sempre un altrove dove proiettare i sogni.
Dei piccoli romanzi di solitudine, nel quale la linea melodica peraltro sublime e sospinta verso una nostalgia che non si sfilaccia ma si decomprime lasciando spazio a 'rubati' piaceri tra dissonanze, pause di spessore in
I Can't Black It Out If I Wake Up and Remember,
I Got Off the Bus e
Whitey and Me, con accelerazioni a distruggere la tranquillità del paesaggio per mettere in circolazione gli spiriti del rock in
Let's Hit One More Place e
Tapped Out in Tulsa,
Don't Skip Out On Me e
Two Friends Lost at Sea, e come sempre con Vlautin le componenti immaginifiche, sonore, verbali si dispongono in modo complesso e non separabile lungo gli assi della spazio-temporalità di You Can't Go Back If There's Nothing to Go Back To.
A Night in the City affascina nel suo lento incedere tra le strade, di notte, con quella capacità innegabile di fermare attimi di vita con le parole, concedendo lunghi spazi di riflessione, e muovendola sinuosamente dentro la natura della città, sempre incantando al piano, nella conclusiva
Easy Run alla ricerca di un'illusione d'amore, dai colori sul punto di dissolversi, come una cartolina sdrucita.
Willy Vlautin, il poeta del buio, l'artista che strappa alla tenebra quel filo di luce che rende visibile gli insondabili turbamenti dell'umanità.