L'uso espressivo degli oggetti di scena (le chitarre di Aaron Bancroft e del vocalist Charlie Hager) e dei costumi (jeans sdruciti, gli stivali impolverati) hanno il pregio di far slittare quell'immaginario del West Texas che costituisce una sorta d'intelaiatura esterna tesa a rafforzare e a rendere significante quel sentimento fisico della
Captain Legendary Band, e
Lifetime la comunica prepotentemente in ogni singolo brano.
La stessa
Title track e soprattutto l’intro di
Honey sono come un mare molto profondo, permette una discesa, un'esplorazione nel rock di stampo sudista ma al contrario del mare, più si scende di livello e più la luce riesce a penetrare in Lifetime, alla progressiva oscurità delle chitarre si affianca la calda strumentazione texana e funziona da indicatore dei cambiamenti di passo di Lifetime.
Attraversa sempre intriganti scenari bucolici (
Wishing Well,
Gypsy Eyes,
Anymore, alla splendida ballata di
Writing on the Wall, all’armonica che scandisce e impreziosisce
Everyman's Blues) e conferma il nucleo ideologico del lontano West, la cui semantica fatta di indiani e cowboy, cavalli e fucili, canyon e saloon si organizza sulla dialettica dell’uso differente delle steel guitars proprio come fra ‘wilderness’ e ‘civilization’.
La Captain Legendary Band prende quegli archetipi e li sposta su un'altro fondale ma si riparte sempre dal tema della frontiera e del viaggio nel West ma li si scaraventa in mezzo a banjo e ruvide chitarre che fanno battere il cuore di
Fire in the Valley, e come le gocce di pioggia che scorrono su di un vetro per poi fondersi in un'unica goccia, espandono il suono di
Drowned in New Orleans e allungano gli 8 minuti della conclusiva
White Dog che vive costantemente di luce riflessa.
Una qualità che hanno sempre avuto, e ora possono permettersi di governarla a briglia sciolta.