KIP BOARDMAN (Upon the Stars)
Discografia border=Pelle

  

  Recensione del  31/03/2004
    

Una preziosa gemma di cantaurato roots che sbuca, come spesso accade, dal grande nulla I della provincia musicale americana. La figura di Kip Boardman si perde in contorni incerti: rare sono le notizie reperibili sul personaggio e le stesse note del ed si limitano a sostenere con qualche dettaglio essenziale la sostanza di Upon The Stars. Si allineano in fondo con la natura della sua musica: scarna, colma di fragili storie d'amore, eppure in grado di stupire proprio grazie alla sua linearità, al fatto di ricercare volutamente gli arrangiamenti più semplici possibili (un merito alla produzione di Charlie McGovern). Rimettendo insieme i pezzi, scopriamo che Boardman, cresciuto nel northeast, si è trasferito da diverso tempo a Los Angeles, affermandosi come apprezzato bassista e pianista, lavorando inoltre come produttore alle spalle di quel luminoso capolavoro countryblues che è stato l'esordio di Ramsay Midwood, Shoot Out at The Ok Chinese Restaurant (recentemente ristampato dalla Vanguard).
Cominciano così a materializzarsi alcune certezze: dotato della stessa acerba magia che colorava il citato disco dell'amico Midwood, Upon The Stars riunisce la crema della scena roots locale, amici conosciuti nel corso degli anni, e si stringe tra le mura domestiche della casa di Kip Boardman per ricreare atmosfere rilassate, folkblues languido e spruzzato di venature pop, che rimanda direttamente a certo songwriting degli anni settanta, quasi ci trovassimo di fronte ad un Randy Newman in versione rurale. La formazione in pianta stabile è costituita dagli esperti Tony Gilkinson alle chitarre e Don Heffington alla batteria (entrambi exLone Justice e in mille altri dischi), a cui si aggiungono, tra gli altri, piccoli contributi da parte di Randy Weeks (chitarra), Amy Coreia (backing vocals) e Danny McCough (organo e accordion). Non è una parata di rock'n'roll stars e d'altronde non servirebbe affatto ad accrescere il potenziale del protagonista, che vive solo ed esclusivamente delle sue canzoni, nove episodi (tra cui la conclusione strumentale di A Song for Agnes) per trentasette minuti di leggiadra poesia elettroacustica.
Se l'introduzione confonde un poco le acque, con una struggente titletrack tutta acustica che ricorda il Neil Young più malinconico, già a partire dalla successiva Bottom Line si respira un'aria countryrock indolente e rurale, un respiro corale da Band e non una sola nota fuori posto. Simili profumi roots si avvertono nel laidback alla J.J. Cale di Remember to Breathe e nella pedal steel che accompagna Waterfall, una ballata sonnachiosa da intonare sotto il portico. Quando pensi di aver imbrigliato la sua musica, Boardman sfugge di mano e cambia ulteriormente le carte in tavola in Edendale, facendoci piombare lungo il border messicano: una chitarra spanish da colore al brano e il nostro interpreta con quel suo caratteristico passo assonnato.
Already Late si muove sulla medesima falsariga, aggiungendoci una chitarra twangy ed una punta di eccentricità nei cori in sottofondo, anche se l'apice della sua poetica un po' arruffata lo raggiunge nella strepitosa Andalusia, un walzer armonioso sospeso tra una timida chitarra, un tappeto di organo ed una batteria spazzolata che lavora di sottrazione: per scrivere una buona canzone spesso non sono richiesti particolari accorgimenti, basta un talento grande così.