Il negozio di motociclette in cui lavora Brandon Wurtz cambia sede, se ne va in California, e il chitarrista e vocalist dei
Jesus Sons prende la palla al balzo per dare nuova linfa al suo progetto musicale.
Porta con se dalle highway di San Francisco a quelle di Los Angeles, un vitale rock anni ’60, ma niente di nostalgico, al secondo disco, la scena di
Bring It On Home diventa un'organismo vibrante, vivo, capace di esaltare senza bisogno di gettare fumo negli occhi, a suon di chitarre (insieme alla slide guitar di Bert Hoover e Shannon Dean).
Si prendono i primi due minuti dell’iniziale
Let's Ride, poi all’armonica tocca proporre una mappatura degli esempi più significativi di un pregevole lavoro alle corde nei 6 minuti di
Miss Blue Jeans e nei quasi 8 della conclusiva
Been Away So Long, tale da far comprendere dove porti tale sbilanciamento (e l’acustico approccio della corale dolcezza insita in
Talkin' Homesick cova riflessioni sulle implicazioni di un rock di stampo classico).
Chitarre luminose, corrono incessantemente da un lato all'altro di Bring It On Home, come la spola di una macchina tessitrice, fanno brillare
Randy's Blues,
No Trespassing Blues e
Won't Walk No Line, una funzione elementare del rock che si avviluppa come una boa alle orecchie dell’ascoltatore in
Outlaw Women.
Piaccia o no, Bring It On Home è il frutto di un lavoro coerente e mirato dei Jesus Sons, che punta a cogliere l'essenza stessa -la struttura mitica, quasi- del rock.