La ‘sceneggiatura’ non si discosta dal debutto di
Ballads and Mental Breakdowns, dopo 6 anni
Uncle Sinner continua a deambulare nel rurale Sud americano con il banjo tra le mani e il mississippi country blues che fa capolino a ogni angolo di
Let the Devil In.
Sfoggia brani cesellati tra simmetrie forzose dove è apprezzabile soprattutto per la sua capacità di coniugare una realtà narrativa scura, ma credibile, con un sistema stilistico originale, dove i limiti della sua riuscita si possono individuare proprio nei momenti in cui questo equilibrio s'incrina tra la slide guitar e il banjo (l’iniziale
Blow,
Gabriel e
Old Reuben).
La flemma della splendida
Let The Devil In, sottintende la necessità di recuperare una dimensione bucolica che deve entrare in contatto con il blues, facendoci condividere la vertigine di chi sente il mondo vacillare, e prima il banjo di
Wolves A-Howling e
900 Miles, e poi la slide guitar di
Jesus Is A Dying Bed Maker, sono perfetti per aprire Let The Devil In sull'abisso del mondo, quello raccontato in
This World Can't Stand Long.
Ad Uncle Sinner va riconosciuto il merito di cesellare
Little Girl In Rome,
Oh Death,
Milkcow Blues e
Black Betty su un'angolazione scabra e tagliente della chitarra, ma in un mondo di congrue voci gracchiate,
Move Daniel.
Nell'etere, l'accavallarsi fluido dei suoni lungo i 6 minuti di
Wayfaring Stranger/Wabash Blues, trascolorano l’essenza di Let The Devil In.