L’armonica trasuda pesantezza, la consistenza della sferzante
Cookin' è tutta nell’attrito causato dalla pressione di un mondo inospitale, Nashville, che sembra voler rifiutare, perché intrusivo e inattuale, il mondo del countryman
Ray Scott: “
I understand that sometimes the business has a place for what I do and sometimes it doesn’t. But what I do has kept me alive out there in the world because it is different enough that people get passionate about it. They stick with it. I don’t sound like everybody else, and I don’t want to.”
Al quarto disco, Ray Scott continua per la sua strada, ad afferrare il ‘country’ come una sorta di specchio deformato da cui osservarne la realtà a suon di telecaster, fuorilegge e vecchi fantasmi. Si aggirano nei selvaggi honky tonks di
Drinkin Beer, Her Old Man e
It Ain't Gonna Be You, guarda al Messico che fa da sfondo a
Tijuana Buzzkill (‘
It’s a true story, right down to having my foot peed on by a Mexican guy’) come i polverosi bar di provincia a
The Ugly One, e tira fuori gemme come
Papa And Mama e
Wheels On The House.
Quando poi gli affianca la pedal steel, sale in cattedra il lato malinconico di Ray Scott nella ballata
Ain't Always Thirsty dove la drammaticità di un divorzio è ancora una volta affidata soprattutto alle parole capaci come sempre di rivelare i tormentati luoghi dell'anima, il loro fulmineo mutare dalla tenerezza al rancore, e orchestrare
Leave This World o infilare il pianoforte in
I Miss The Days è nelle corde di
Ray Scott, un disco dove trabocca tutta la forza affabulante di un vero countryman.