Nel taglio, nella fenditura di
Terms of My Surrender l'intrusione in un universo intimamente personale da parte di
John Hiatt, ne pretende il possesso mentre canta di angeli e demoni e riflette sull’amore, punteggiature letterarie continuamente sfocate e rimesse a fuoco dal rock, dall’armonica al blues, alle steel guitars liberate in abbaglianti ballate elettro-acustiche, come
Long Time Comin', un modo per far capire come le persone possano scoprirsi, capirsi, trovarsi anche se non sono (socialmente) programmate per farlo.
L’altra espressione di Terms of My Surrender è in
Face of God, echi bluesy nei silenzi e nella penombra della religione, dove la macchia umana trova unità e dignità, al banjo come apripista alle atrocità e corruzione della tetra
Wind Don't Have to Hurry, alla lap steel di un’altra perla, le atmosfere ‘noir’ di
Nobody Knows His Name, non un 'genere' letterario e cinematografico, come il blues non è un 'genere' musicale. Sono uno stato d'animo.
Nothin' I Love descrive bene gli stati d’animo che John Hiatt combatte con l’amore, diverso, ma alla fine sempre uguale in
Marlene e
Terms of My Surrender, ma sempre alla ricerca di qualcosa a cui ancorarsi, in cui credere fermamente e se proprio necessario
Baby's Gonna Kick (me out someday).
Divertente. Nell'invitante blues di
In Here to Stay l’amore assume una qualità nuova, un plusvalore come in un bel dipinto espressionista, lap steel & slide guitar setacciano anche
Old People, migrano gradualmente verso il polo riflessivo del pianoforte che si allarga in
Come Back Home. Le arricchisce di timbri e impasti come piccoli canali che nascono lungo il corso di un grande fiume. Canali e fiume che vale la pena solcare lungo Terms of My Surrender.