Non c’è dubbio, a
Blue Collar Troubadour appartiene l’idea della complementarità fra superficie e prodondità del Texas country, intercambiabili in un movimento reciproco di sostituzione sul quale
Aaron Einhouse interviene dosando rock e ballate e all’ascoltatore apparirà profondamente sincero perché non ha il retrogusto sgradevole della glicerina del music business.
A produrre stavolta è
Mike McClure, non c’è a guidarlo
Walt Wilkins (i primi 2 dischi) ma con lui Aaron Einhouse scrive la Title track,
Blue Collar Troubadour, e l’incontro offre una serie di sospensioni ed emozioni tra l’elettrico e la malinconia della pedal steel (perfettamente a fuoco anche in
Crazy & Love) del mandolino in
I Could Fall e del banjo in
Crow Town.
Panorami su esseri umani, in cui uomini, donne, religione e vita agreste appaiono come diorami inscritti in larghe vetrate, traspaiono dietro le solide
God's Country e
Livin' the Dream, violini vagabondi e telecaster vagano fino al cuore del country in
Dance in the Rain e
She Hold the Keys.
Aaron Einhouse mette sul piatto passione e spensieratezza, in dosi uguali, intrecciate in maniera indissolubile in
Some Things, seduce il lavoro sullo sfondo delle chitarre in
Song of My Heroes, uno scenario in continua mutazione sull’incessante movimento orizzontale della telecaster in
Hard Work macchiando la ballata conclusiva
Easy to Smile.
Blue Collar Troubadour spazia geograficamente per il Texas aprendo finestre e sipari su angoli del country ancora una volta intriganti perché segnati sulle piccole fratture del rock.