SCOTT H. BIRAM (Nothin' But Blood)
Discografia border=Pelle

             

  

  Recensione del  23/03/2014


    

Spirituale, al nono disco Scott H. Biram crea un universo duplice per Nothin’ But Blood. Atmosfere acustiche rarefatte e misteriose nelle quali l’oscurità poggia sulle contraddizioni tra vita e morte, inglobano forme e corpi emozionali tra il puro e l’impuro, il bene e il male continuano ad essere due facce della stessa medaglia, la realtà, dando vita alla creazione di nuove sagome, di fantasmi inquietanti e significanti pronti a materializzarsi nei microcosmi conosciuti del Mississippi delta blues. Per comporla si può dire che Scott H. Biram procede all’inizio più lentamente del solito, Slow & Easy e Gotta Get to Heaven rendono la materia di Nothin’ But Blood opaca e densa, il cammino è caratterizzato dall’intermittenza della luce della slide guitar, come un lampione lampeggiante sul viale di un di vita selvatica e il desiderio di espiazione di Never Comin' Home.
Segue minacciosamente Alcohol Blues, soggetta a violente variazioni, corre veloce nella buffa Only Whiskey, a destra, a sinistra, come un giro di pista, in una specialissima ‘ronde’ fantasmatica ad insegnare qualcosa su come vivere le disillusioni della vita e approfittare del tempo a disposizione, pur mantenendo intatte tutte le sue ‘nostalgie’ quando canta ‘Only Whiskey can sleep in my bed’.
Il one-man band di Austin, Tx, continua a produrre e registrare nello studio di casa “I’m on the road a lot, so it’s hard for me to put a band together and commit and deal with all the egos and practice times and all that stuff, but also sometimes it just comes down to finances. I have a lifestyle I have to maintain”, le varie gradazioni di luce della slide guitar all’interno dello spazio della splendida rivisitazione di Jack of Diamonds sono in perenne conflitto nel racconto di un veterano in Nam Weed, si aprono e si svuotano buchi neri nel peccato di Backdoor Man, o nello spessore visuale infuocato della strumentale Around the Bend e Church Point Girls, sul versante sospeso del sogno.
Il limbo, come è noto, non è che il cerchio numero uno dell’Inferno di Dante. “I think people are genuinely good, but they just do bad sometimes …”, spiega Biram. “Just because I’m singing about murder or burying people, it’s more like a subconscious thing for me of burying frustration.” L’armonica nel finale, apre suggestivi campi lunghi di malinconia nel segno del Signore, I'm Troubled e in Amazing Grace, lo incontra parlando di mortalità in When I Die con il gospel di John the Revelator (un duetto con il concittadino Jesse Vain) a chiudere il cerchio di una morale poco ‘cristiana’ lontana dal nostrano senso strumentale e funzionale al mantenimento di uno status quo politico, religioso e sociale.