MORELAND & ARBUCKLE (7 Cities)
Discografia border=Pelle

     

  

  Recensione del  21/09/2013


    

Ho conosciuto i samurai con Rashomon, la Monument Valley con il respiro di Ford, ho visto i contadini lombardi con gli occhiali di Olmi e i ‘conquistadores’ con Moreland & Arbuckle… Tra una linea e l’altra di questi ricordi, c’è una scelta che con sicurezza si accampa in primo piano, giace sotto quell’elmetto poggiato sulla terra del Kansas dove l'invasore spagnolo Coronado andò in cerca dell’oro, un’odissea in 7 Cities raccontata nella ruvida opening-track di Quivira.
L’aggancio è con i Nativi Americani e con la scoperta di un’illusione, il resto è nella ossessiva ‘coazione a ripetere’ delle soluzioni alla cigar box guitar di Aaron Moreland a simulare un vero e proprio meccanismo ad orologeria con l’armonica di Dustin Arbuckle e la batteria della new-entry Kendall Newby : “The song is about ascent to power and – as so often happens when people seek great wealth or power – it all crumbles, and they come down,” dice Arbuckle. 7 Cities è un nuovo punto di vista sul blues, una nuova presa di posizione, uno strappo tra il delta del Mississippi e le radici del rock che va dritto in Kansas (“There’s a very high hill in the middle of what’s now farmland – which would have been open prairie when Coronado was there,” continua Arbucke. “It’s called Coronado Heights. It’s local legend that he planted his colors there and used it as a place to overlook the whole region”). Un tempo che in musica scuote, rasserena e cambia prospettiva tra Kowtow, Broken Sunshine e The Devil And Me, nella terra desolata d’America gli unici portatori di verità sono coloro che non appartengono alla schiera dei vincenti.
L’armonica torna a rileggere se stessa nella spiritata Tall Boogie, come una frase palindroma, ma procedendo per accumulo di ripetizioni della cigar box guitar, costeggiano il Mississippi per una dolce parentesi strumentale, Red Bricks, prima che la sequenza riprenda in Stranger Than Most e Bite Your Tongue e ci trasporti come d’incanto in un mondo ‘altro’, dove i diavoli sono già arrivati. Raccontano le fatiche di Coronado nella viscerale bellezza di Road Blind, quel lungo viaggio dall’Europa che una sorprendente rivisitazione di Everybody Wants To Rule The World (dei Tears for Fears, gruppo pop/romantico anni ’80) chiude sul sonno della conoscenza del potere: genera carne infetta, che genera altra carne infetta.
Moreland & Arbuckle nel finale soddisfano ultimi desideri, ricorrono i controcampi dell'armonica in Waste Away e i primi piani della cigar box che esaltano la componente riflessiva di Time Ain't Long, senza uscirne fuori puliti e bisognosi di aria fresca, perché Modern Boy richiude 7 Cities lungo la curvatura di Coronado. Un 'unico presente perpetuo’, dal quale non vi è alcuna uscita.