Gli ultimi 2 anni a seguire il flusso della musica con il suo accumulo continuo di melodie da cui lasciarsi portare da Detroit verso Nashville, l’io narrante dei
Deadstring Brothers che affiora ogni tanto, lavorando a vista, si può dire così, a rendere più vivo il girovagare di
Kurt Marschke insieme al suo concittadino e amico
JD Mack (dei
Whitey Morgan & the 78’s) a suonare, ma con in mente un nuovo album e una super squadra (Brad Pemberton -Ryan Adams & the Cardinals- alla batteria, Mike Webb –Poco- organo, piano e mandolino, Pete Finney alla steel e dobro, Kim Collins al coro).
Cannery Row è dichiaratamente a favore dei grandi spazi, acquei o montagnosi che siano, degli orizzonti senza limiti, si avverte da
Like a California Wildfire, porta con se romanticismo e figurine delle praterie, la dice lunga su una società orgogliosa del suo sviluppo ma sostalzialmente afflitta da guai piccoli e grandi.
L’armonica corre lontano e libera tra la pedal steel e la fisarmonica in
It's Morning Irene, tra il pianoforte della splendida
Cannery Row e quel suono nostalgico che si attacca anche a
The Mansion, legato al country di
Gram Parsons, rischiando di scivolare nel percorso da ‘tribute band’ nelle deliziose
Oh Me Oh My e
Long Lonely Ride, ma
Cannery Row si appoggia su quella forza contraddittoria della cultura e del mito americano che sta, in origine, nella scoperta del paesaggio immenso e poi nella sua colonizzazione a chiazze, tra giardino e deserto (per dirla alla
Ford).
Lucille's Honky Tonk si adatta perfettamente ai grandi spazi melodici tracciati da
Cannery Row, quell’apertura orizzontale del paesaggio che manca -purtroppo- in Italia, contemplata nella bellezza elettrica del finale con
Just a Deck of Cards,
Song for Bobbie Jo e
Talkin' with a Man in Montana.
Cannery Row guarda al passato, in modo anche discontinuo, ma è un disco dal quale è difficile –se non impossibile- restare a distanza.