GREG ‘STACKHOUSE’ PREVOST (Mississippi Murderer)
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  Recensione del  22/05/2013
    

Dopo 30 anni di rock coi Chesterfield Kings era pronto per il passo più difficile (“I didn't want to play music anymore. I had just kind of burned out. I didn't want to tour, I didn't want to play, I didn't want to do nothin'”) ma il presupposto di un rallentamento ha permesso al chitarrista Greg ‘Stackhouse’ Provost di guardarsi intorno, di concentrarsi su un vecchio amore, il blues, da quel Drunk On Muddy Water inciso nel 1990 con i Kings, e sul quel progetto nato da lontano, accudito, spolverato nel cassetto, osservato attentamente, sviscerato da più parti, ha trovato nuova luce in Spagna, a Barcellona, per Mississippi Murderer.
Un power trio (Zachary Koch alla batteria e Alex Patrick al basso, con il contributo occasionale al piano di Keenan Bartlett) Greg Prevost lavora sulle piccole crepe blues del passato dalla muscolare Death Rides With the Morning Sun, si allargano fino a diventare buchi nelle distorsioni elettriche di Get Myself Home, Too Much Junk, Never Trust the Devil e Stoned to Death. Le osserva in disparte quando si sposta in un altro spazio, acustico, in I Ain't Signifying, pronto a regalare un’avvicente coda elettrica e nel segno di Robert Johnson (Ramblin On My Mind), trovando il fascino della lap steel in Ain’t Nothin Here to Change My Mind e dell’armonica (Hey Gyp (Dig the Slowness) e Downstate New Yawk Blooze).
Mississippi Murderer si ferma ancora sulla soglia del tempo con Hard Time Killing Floor Blues di Skip James e John The Revelator di Blind Willie Johnson, ma in una dimensione che non odora di naftalina, ma solo di sano e viscerale blues.