Il sestetto che incendiava gli ‘small bars’ del Kentucky cambia leggermente la traiettoria alla melodia, ma continuano ad essere perfettamente a loro agio in quella ‘via di mezzo’, in cui la
wilderness è pronta a cedere il passo alla civiltà, dove la legge del più forte, e del senso comune, insito nella tradizione del country/bluegrass fa i conti con le regole e i codici di un ferreo e chitarristico rock urbano.
Tra il quartetto dei
Fifth on the Floor compare
Shooter Jennings, dietro il vetro di un treno pieno zeppo di lap steel, violino e banjo su cui è riflesso il West, tra vagoni pieni di ‘Whiskey’ e ‘Wine’, e nella voce pastosa di Justin Wells che apre
Ashes & Angels e con piacevole sorpresa, in quella di
Rachel Brooke, senza nessuna trasfigurazione romantica, l’asservimento alla bottiglia è solo un espediente per raccontare ed entrare nelle profondità delle cose.
Ashes & Angels si svuota di ogni valenza ideologica e si sofferma sulla sua natura esclusiva di teatro della rappresentazione nella vibrante
Shotgun e nella splendida
January In Louisiana, pistole, donne e galera, il mito Western non ha nuove storie o strade davanti a sé, restano sempre buone quelle vecchie, e nella fattoria, al country spetta il compito di sollevare la polvere e i ricordi, deliziose
What For,
Same Old Thing e
Angels In The Snow.
Stride la chitarra di Matty Rodgers nell’intro di
The Last Opry ad aprire le bollenti
Burnin' Nashville Down e
Wild Child, punto di origine e di aggancio a tutti gli effetti dei
Fifth on the Floor, il rock è un’altro degli oggetti ‘preziosi’ di
Ashes & Angels con cui
Hangman's Reel e la conclusiva jam di
One Big Holiday (brano dei
My Morning Jacket) amano dialogare. I
Fifth on the Floor spingono sulla passione per le atmosfere rurali e riescono a formare un impasto sorprendente di modalità emotive per
Ashes & Angels, ottenute mescolando continuamente le carte tra country e rock e senza mai giocare l’asso decisivo.