Non deviano poi tanto dal percorso di
Rites of Uncovering (l’esordio del 2007), lo stile resta rarefatto, un ‘indie rock’ fatto di antonomie e contrasti all’essenza della psicadelia, la chitarra e la voce di
Dave Heumann ne sono le principali dispensatrici, un connubio che diventa sintomatico sin da
The Long Night.
La band di Baltimora si fa portatrice di un malessere specchio di un vuoto dell’anima e di un’inaccettabile carenza di amore, nella placida e luccicante bellezza di
Renouncer la chitarra serra il ritmo uniforme di
Coming Out of the Fog, riffs claustrofobici entrano tra le righe tracciate dalla penna di
Colin Dickey, in un viaggio nel deserto Siriano alla ricerca di una qualche purificazione celeste dove per contrasto si liberano ariosissimi totali nella jam alla chitarra.
Il mondo esterno è ridotto a macchie di colore, continuano a pulsare nelle chitarre di
The Promise e
World Split Open, tra l’immaginario naturalistico di
Oceans Don’t Sing, ha un intro morbido, il piano e la lap steel hanno distanza zero e donano durata infinita all’oscurità.
I punti di fuga di un’ottica teoricamente immateriale sulla quale gli
Arbouretum infilano un’altra incantevole ballata elettrica,
All at Once,
The Turning Weather lungo la quale procede l’ennesima rivelazione di intriganti spaziature spirituali, sperimentando in
Easter Island, prima di chiudere il viaggio con la bellezza di un pianoforte, cercando di allontanarsi da quella danzante inquietudine che rende così vivido
Coming Out of the Fog.