L’esordio del ventunenne
Tyler Bryant è dominato dagli impulsi aggressivi del blues, si incuneano in spazi melodici prima impensati in quel di Honey Grove, Texas, e l’intuizione di
Eric Clapton è indovinata -l’ha chiamato a suonare al
Crossroads Guitar Festival- anche di
Jeff Black per l’intero tour del 2011, e non si è attutita dopo il recente Ep,
My Radio.
Un anno di crescita per
Tyler Bryant e i the
Shakedown (band che annovera Graham Whitford, figlio del chitarrista degli
Aerosmith) ed il riscontro è nella trama di
Wild Child. In quel di Nashville con quella carica di ribellione utile contro una società dominata dagli sprechi di cose, di parole e di sentimenti,
Tyler Bryant mette sul piatto una cura a base di blues, sporco e cattivo, come le torbide acque del Mississippi, dove tirare fuori le prime digressioni alla chitarra per
Fools Gold.
Irrompono bruscamente, ad alto volume hanno lo stesso effetto di un improvviso stacco pubblicitario, ma in questo caso non è sgradevole.
Wild Child (“
We've done this record a couple of different times because we thought we could keep beating ourselves, and we did,” dice Bryant. “
We tracked it in 13 days, completely live to analog tape - two-inch - and I'm really excited about it”), omaggia le donne ma non scivola in storielle adolescenziali, vita e buoni sentimenti in un lavoro ai testi personale e tutt’altro scontato come il suono in
Lipstick Wonder Woman e
Cold Heart, si raffredda nell’intro melmoso di
Downtown Tonight e in
Last One Leaving, splendidi passaggi ai confini del Delta blues ripresi nella chiusura acustica
Poor Boy's Dream.
Certo in qualche itinerario gira un po’ la testa (
Say a Prayer,
Where I Want You,
House On Fire,
House That Jack Built) ma lo stesso accade anche davanti a un quadro di
Pollock, ed è una certezza che dai coretti di
Still Young (Hey Kids) e
You Got Me Baby,
Wild Child avrebbe potuto darci molto, ma molto di più. Resta un buon esordio, un disco accattivante nella sua immediatezza e rapida consumazione.