La Palomino Records, la famiglia, il territorio texano, restano il cemento catalizzatore nella musica di
Rodney Hayden. Continua a lavorare sull’iperbole dei cowboys, gonfia il country e la pedal steel nell’avvio di
Vegas e proprio sul decorso di questi due flussi –contigui e a tratti coincidenti- procede senza esitazioni
Atascosa Sand.
Staziona con grazia nell’elettrico con la convincente
One Good Year, la figurazione forte e strutturata della melodia segue la composizione dello sfondo di
It's Good to Be Back Home, di un paesaggio evocato nella ballata macchiata dai sapori di confine di
Goodbye to My Hometown (ripresa da
Living the Good Life del 2003).
La lap steel è sempre materia fluida, non aerea e impalpabile, gravita intorno ai ricordi di un rodeo-man, indagati con tenerezza ma anche determinazione. La chitarra diventa ruvida e compatta, come le strade, in
Song of Sunset e
Good Horses Are Hard to Come By, scritta con il figlio di
George Strait (“
I wrote half the song with Bubba. He took it home to his dad and he finished writing it,” dice Hayden) la suggestione del rock di
Buckaroo Man (da notare come sia diventata l’intro di presentazione per il giocatore di baseball Clay Buchholz dei Red Sox, al Fenway Park in Boston) e i confini del Messico toccati in
The Cowboy from Kicaster Creek, lasciano la stessa suggestione di un film di
Sam Peckinpah, da una parte un grande ‘spazio’ all’azione e dall’altra un grande ‘spazio’ di contemplazione pura.
Meccanismi di natura dinamica che producono una qualche forma di fusione, o per meglio dire, compresenza, tra il bel duetto con Kelly Willis di
I Drink to Remember e la famiglia raccontata nel finale di
Atascosa Sand. Terra desertica e desolata nel Sud del Texas, sopra un cielo attraversato da nuvole che corrono veloci. Su quel confine tra cielo e terra, cammina la musica di
Rodney Hayden.