Il singer/songwriter
Russell Morris si ispira ad una lettura di un gangster di Sydney,
Shark Jaws, e trae lo spunto per un disco costruito come una sceneggiatura in grado di trattenere costantemente un nutrito stuolo di personaggi vissuti in un’era tra il 1920 e il 1930, “
To our knowledge, most ‘Australiana’ characters have been portrayed in a traditional colonial folk sense, so we wanted to find a way to deliver the stories in a more mainstream vein whilst still placing them in a ‘vintage era’. A blues style seemed to be the perfect fit!”
La scelta di blues e radici folk per le storie di
Sharkmouth si dimostra vincente per scavare tra azioni e fatti all’interno di una lunga linea d’ombra,
Russell Morris (stella pop negli anni ‘60, a Melbourne, con il gruppo dei Somebody's Image), dà una forma esplicita all’estetica dell’oscurità di quel periodo, una band rodata e capace nell’usare lap steel e slide guitar, nel vivere l’essenza del lontano Mississippi o delle radici del Delta blues.
Impeccabile la misura con cui lasciano che le vicende di
Black Dog Blues,
Ballad of Les Darcy e le brillanti
The Big House e
Sharkmouth vengano filtrate da un velo di amarezza, asciutta in un coinvolgente set elettro-acustico (brilla l’armonica in
The Drifter e il banjo di
Squizzy).
Sharkmouth si trasforma in un parassita dai libri cui trae origine, un’idea forte, suono più aspro per
Bout to Break,
Mr Eternity e
The Bridge, classico e tradizionale per il blues di
Money Don't Grow On Trees e
Walk My Blues, utili a mantenersi autonomo pur conservando una continuità con lo stampato. Una scrittura che anche sul finire, con
Big Red, si dimostra quantomai produttiva e funzionale al tessuto narrativo di
Sharkmouth.