Ben Ringel (vocalist) e Dylan Fitch (chitarra) si sono conosciuti al college prima di sbarcare insieme a Nashville nel 2007, senza rantolare nel lazzaretto commerciale dei surrogati del country, i
The Delta Saints hanno varcato il confine, preso la prima strada verso il Sud con un paio di brillanti Ep (
Pray On, 2009 e
A Bird Called Angola, 2010) utili a rodare blues, le spesse vibrazioni del Mississippi, dare spazio al gospel e ai sapori caldi da New Orleans.
Nelle prime righe di
Death Letter Jubilee si scopre una frizzante armonica, aiuta ad esplorare gli abissi dell’animo umano e le infinite solitudini della nostra società, la morale tra
Liar, la
Title-track e
Chicago è però attutita dalla superficie della strada, ruvida come il suono dei
The Delta Saints. Spingono i vortici delle chitarre nella deliziosa
Boogie sfidando il loro desiderio di libertà finchè l’asfalto non cede il passo alla terra, il vagabondare nell’acustico di
Jezebel, nel gospel di
River diventa erranza bucolica nella dolcezza di
Out to Sea. Ma
Death Letter Jubilee resta simile a un girone dantesco,
Sing to Me,
The Devil's Creek e
From the Dirt sono scandite dal rumore ossessivo della slide guitar e delle percussioni che scuotono ad intervalli
Drink It Slow e il finale di
Old Man, affastellando senza troppa preoccupazioni di organicità i tagli e gli effetti dei fiati nello splendido epilogo di
Jericho.
“
The main thing we wanted for Death Letter Jubilee was for it to have movement,” spiega Ringel. “
We wanted people to listen and have an emotional journey similar to the one we had while making it.” Un viaggio restando fedeli al blues, ma levigato a lucido dal rock. Gli straripanti aromi sulle strade dei
The Delta Saints.