Decidono di pubblicare un disco ‘free’ e si apre un lungo e appassionato dibattito sul web -e non solo tra i sostenitori del duo dei
The Damned and Dirty, tante idee filtrate attraverso l’amore per il blues: “
Is not as mainstream as we’d like. From this perspective we can only encourage more free distribution,” dice il vocalist e armonicista Kevin de Harde. “
As a musician you want as many people to just hear your music. The ‘illegal’ distribution of our previous albums (BluesMotel) helped us to get notice and airplay from around the world”.
The Damned and Dirty ripiega, anzi opta decisamente per il fascino più sottile e intrigante dell’acustico, la steel guitar è più sfumata, più elitaria, e una ruggente armonica solcano
Mr. Highway Man,
2am in the Morning,
John the Evil e
Homeopath, ma c’è il rischio di ingolfarsi in questa raffinata sospensione acustica. Un lungo intervallo dove la melodia trova il modo di spingersi lungo il Mississippi, tra casolari cadenti, la luce fredda del fiume capace di asciugare sentimenti e ritmo nel benedetto splendore di
Feel Like Crying, la trasforma in un mondo fangoso dove chiede asilo una fastosa
Communist Guitar.
Insomma i
The Damned and Dirty non infilano una canzone via l’altra come semplice tappezzeria sonora, parlano di donne in
Girl Wants a
Pink Car e
Country Shizzle, ma per fortuna c’è il whiskey di
The Boom Boom Club che aiuta a dimenticare (e da quelle parti a chi soffre ne spetta di diritto una doppia dose) mantenendo il biopic armonica/steel guitar a discreti livelli, si allenta nel finale nel diverso piano linguistico di
Dementia e nel percorso solista di
Family Blues e
Little Black Book, ma torna a coagularsi nella giusta tensione acustica tra
When the Devil's Got Your Name e
Soliloquy.
The Damned and Dirty è calibrato con precisione scaltra, adatto soprattutto a quelle orecchie che non ascoltano volentieri blues acustico. C’è sempre una prima volta.