BILLY DON BURNS (Nights When I’m Sober (Portrait of a Honky Tonk Singer))
Discografia border=Pelle

     

  Recensione del  04/11/2012
    

Canzoni di vita schiette e meravigliosamente sincere, tracce di una lunga carriera vissuta tra le gioie e i dolori della country music. Non esiste un dentro e un fuori per Billy Don Burns, ma solo l’alveo pietroso della dignità di un cantastorie che ha vissuto sulla propria pelle periodi bui, droghe comprese, sulla strada a contatto con la peggiore feccia del mercato discografico ma coerentemente con la sua musica ha sempre trovato la forza di restare a galla, le canzoni di Hank Williams gli insegnavano come perseverare e non ha mai lasciato spazio a un songwriting ricattatorio o sentimentalistico.
Una leggenda nata in Arkansas che ha scoperto il proprio talento sotto le armi, l’unico sollievo all’infernale training militare era la musica, un programma, un uomo, Don Grady, TV star di ‘My Three Sons’: “When I won that,” dice Burns. “I thought maybe I do have something going on for me. It was a pretty big deal. When I got out of the Army, I knew for sure this is what I was going to do.” Ecco Bakersfield, l’incontro cercato e poco casuale con Merle Haggard negli anni ’70 attraverso Roy Nichols –chitarrista della band-, la prima canzone incisa nel 1973, produttore per Johnny Paycheck negli anni ’80, l’apice della carriera: “My biggest moment in the business would be when Johnny Cash sent me a one page letter. That was the biggest thing that has ever happened to me. I gave it to the Stone County Museum in Mountain View, my hometown in Arkansas.”
Il crepitio della puntina dello stereo che graffia il solco di un vecchio vinile è il modo giusto per presentare la splendida Honky Tonk Singer, una memoria impossibile d’archiviare, piena di contorni di senso tra boots, whiskey, sigarette, pedal steel e violino, che aderiscono come larve alla superficie di Nights When I’m Sober (The Portrait of a Honky Tonk Singer) e alla strada che Billy Don Burns racconta in Wouldn't Have It Any Other Way, liberando nella splendida ballata di Gaylor Creek Church la densa fattualità del quotidiano religioso. L’armonica è anche il modo dolce per descrivere alla madre le droghe nella deliziosa It Would Kill Mama, utile per congedarsi e proseguire tra accorate riflessioni ironiche e tragiche, Is He the Writer? e Stranger, intervallate con vampate incandescenti della slide guitar pronte ad accendere l’asfalto su cui viaggiano Born to Ride e Diablo's Highway.
Il luogo ideale per gli erranti di spirito, il luogo suggestivo per Heart Breakdown, senza il conforto di una meta reale, dove bramare di partire senza sapere dove andare, come il signore del breve racconto di Frank Kafka. Nights When I’m Sober (The Portrait of a Honky Tonk Singer) è sempre in movimento, saltella felice nel finale di That's Alright e Aaron Rodgers and Me, trovando nel piano della sfavillante When Lonesome Comes Around l’antidoto ad una dura realtà di sofferenze riuscendo a far passare un’idea del Country che ci eravamo dimenticati esistesse.