Addio alla Lost Highway, addio ai Dead Horses, il Texas è alle spalle, il lavoro al rodeo di Del Rio per pochi soldi, tanta polvere e notti stellate dal retro di un camioncino, sono oramai lontane, adesso c’è la California, la moglie e la Axster Bingham Records.
Tomorrowland non ha radici come
Junky Star o
RoadHouse Sun, dischi come specchi delle indubbie qualità di
Ryan Bingham, ma
Tomorrowland non è la somma che da quegli specchi ci vengono restituite, costruito su scampoli di rock allo stesso tempo indipendenti e legati tra di loro, ma stavolta incompiuti. Ogni porzione di
Tomorrowland è colta in ‘
media res’, e non si va oltre.
“
My last record was a little slow, and a lot of the songs were dark and sad. Playing those songs every night got tough sometimes. I wanted a record this time around that would be fun to play live” dice Bingham, ed infatti le chitarre prendono il sopravvento, nervose quando si tratta di parlare di politica, di corruzione e dell’altalenante situazione economica, continua ‘zavattiniamente’ a "pedinare la realtà" per mostrarla 'così com'è', non c’è nulla di sommesso, di pacato, di mediato in
Beg for Broken Legs e
Western Shore, resta invece una stonatura orchestrale che su di un palco di certo svanirà, ma apre una falla in
Tomorrowland, nella lunga ora di musica.
Le immersioni acustiche dentro il pozzo angusto dell’essere al mondo convincono,
Flower Bomb e
No Help from God, lasciano l’amaro in bocca nel crescendo di
Rising of the Ghetto,
Ryan Bingham è incazzato e lo urla in
Guess Who's Knocking, urla la ragione del più forte ma contro la razionalità del sistema economico, il finale è aperto proprio come in
Tomorrowland. Il gioco raffinato intorno alle sottigliezze di
Heart of Rhythm e
I Heard 'Em Say diventa intenso quando s’interroga sulla memoria e sulla necessità di fare rock, ma perde verità quando insiste sulla ricerca di un tono applicato a una materia, il rock, che in qualche modo gli resiste in
Keep It Together e
Never Far Behind.
Bisogna aspettare il finale perché
Tomorrowland respiri il Texas. Tre brani, negli appena 2 minuti di una deliziosa
The Road I'm On, Kerouc pensiero, «
L’importante non è dove si va, ma da dove si viene via», punti essenziali per un’idea di vita“erratico”, comunque indisponibile a fermarsi in
Neverending Show e nella sublime chiusura acustica di
Too Deep to Fill. Tocco alla Bingham, è troppo poco perché nel ‘sonoro’ riesce ad essere assolutamente vuoto e senza profondità. Difficile prevedere se tanto talento resisterà, se si scotterà, o andrà a fuoco. Aspettiamo.