STONE MACHINE (American Honey)
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  Recensione del  04/11/2012
    

La nervatura di American Honey ha le fondamenta nel classic rock e nel ‘guitar blues’ anni ’70, magmatiche le corde della Les Paul tra le mani di Dirk Blevins, passionale la voce di Jason Mays, la ‘storia americana’ in American Honey (la Title track) ha solo un doppio percorso (whiskey e donne) ma il power trio del West Virginia è pronto alla caduta libera in una voragine di accordi che avevano lasciato l’acquolina in bocca nell’esordio omonimo del 2009.
American Honey ha il pregio di consentire all’ascoltatore vari punti di accesso, di approcci possibili ad un disco altrimenti aspro e respingente, esercizio faticoso per chi non ama il rock in Stone Cold, Bad Lovin' e Corn Bread, poco accademico nel trattare i sentimenti, riduzione del vivere all’andare chitarristico. Scontorna la matrice classica nella deliziosa Rock N' Roll Queen, come la figura di una ‘donna’ unica e squattrinata, stramba eppur affascinante, come le lunghe strade dell’America di Long Road dove l’acceleratore è premuto constantemente al massimo, dominato dal movimento e dalla velocità, del puro piacere di una giornata di sole sull’asfalto.
Bravi a frenare gli Stone Machine e ne tirano fuori una jam brillante nei 6 minuti di Better Days, specialmente quando masticano bluesy nello splendido duetto armonica/chitarra di Shake That Thang che introduce una discesa cupa, sinuosa, notturna nel Delta Mississippi di Speed Demon, lo costeggiano con il rock, si cambiano continuamente di posto e resta difficile distinguerli. American Honey li fa prigionieri nei 6 minuti della conclusiva Bye Baby Bye, li rinchiude in Midnight Gypsy e May You Run Forever, perché a nutrire i sogni della notte dei Stone Machine, c’e solo il rock.