DAVE HARDIN (Miles of Nowhere)
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  Recensione del  13/09/2012
    

Miles of Nowhere’ quelle del singer-songwriter del Kentucky, Dave Hardin, come uno schermo di rimbalzo con l’occhio diretto nel retrovisore di una lunga carriera, rifiutando facili compromessi commerciali prova ad abitarle in modo trasversale lungo lo spazio messo a disposizione dalle strade del presente texano, e si allontana verso la Austin dell’iniziale The Sky and The Cross.
Il punto di vista sull’orizzonte aperto della strada che sta alle spalle e contemporaneamente la soggettiva autoriflettente di un Dave Hardin a cui interessa registrare il formicolio elettro-acustico della matrice roots & americana dissiminata attraverso figure come John Deere 69, Dio, il Diavolo, i cieli del Lone Star State, tutto si accumula in Gospel 101, mandolino, lap steel scorrono in Take Her 'Way che sembra ribaltare in una solare leggerezza musicale il timbro melanconico della realtà che in Miles of Nowhere sono come lividi della coscienza e buchi nella memoria in If This Ain't Love by Now. Elettrifica solo Macon County Jail, pronta a rompere l’oscillazione acustica che regna nel finale di Red Dirt Bird, On an Afternoon, Saint Vincent DePaul's e l’accorata conclusione di Pieces.
Le cose veramente importanti non fanno molto rumore, un succedersi di quadri narrativi che non diventano azioni, ma emozione nel pellegrinaggio musicale di Dave Hardin vissuto in uno stato di simbiosi con la terra e la strada, in una sorta di elegia folk-roots che permette di saggiare la tenuta dei brani di Miles of Nowhere nel loro dolce girovagare.