Big Station si sviluppa sulle stesse onde crescenti di
Street Songs of Love, il titolo è la chiave di rapporto di un nuovo ambizioso progetto diviso con il produttore
Tony Visconti (“
This is our third project and I love the songs we’ve come up with and they’re very different than what we’ve done in the past, so I’m very happy with the result”), dove le abbacinanti stagnazioni luminose di David Pulkingham mancano nell’aggressiva
Man of the World semplicemente perché sostituite dalla new entry Billy White (anche alla batteria c’è un cambio, Chris Searles per Hector Munoz).
Da
Big Station –la title-track- lo spazio del rock inizia a specchiarsi nel ritmo del pop che sembra semplice ma nasconde una feconda complessità, si specchia efficacemente nelle trombe e nel sax di
Can't Make Me Run o della raffinata ballad di
Sally Was a Cop e si rivela letteratura, morte e ghiaccio, vuoto e silenzio lungo lo spinoso tema della corruzione politica Messicana (“
The album was really about looking outward at some of the things Chuck Prophet and I had seen together just as tourists in Mexico,” dice Escovedo. “
Were also really taken by the poverty we saw in Mexico. So we wrote this tune about a girl who wants to be part of her community and help her community but is put into a position of having to defend it against all the horrific things happening around her”).
La sua Austin, città unica e rara cantata nella splendida
Bottom of the World, disegna brillanti traiettorie elettro-acustiche mettendo in moto personaggi e fermandoli al momento giusto in un’altra preziosa ballata,
San Antonio Rain. Scalpita
Big Station solo in
Party People e
Too Many Tears, i sussulti di
Never Stood a Chance,
Headstrong Crazy Fools e
Common Mistake, diffondono una corrente magnetica di sensualità che affoga in un altro tipo di bellezza e la conclusiva
Sabor a Mi -del messicano Alvaro Carrillo, targata 1959-, fa pensare che
Big Station cerca solo dei ‘begli’ occhi che li sappiano ‘guardare’.