SONS OF BILL (Sirens)
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  Recensione del  01/05/2012
    

Il discorso del premio Nobel William Faulkner (‘Banquet Speech’) tenutosi a Stoccolma, nel Dicembre del 1950, quel passaggio scuro e minaccioso come il vento del Sud della California di Santa Ana Winds che spira nella valle della morte, è per i tre fratelli Wilson il modo di allontanarsi dal movimento orizzontale tipico della progressione dell’alt. country, per ospitare un’anima dell’America melodica in Sirens.
Gettano ancora le assi nella polvere della roots music, ma come anticipano Find My Way Back Home e Siren Song non ci sono canzoni che parlano d’amore e il whiskey scarseggia, propongono un bersaglio pop/rock & americana e cercano di raggiungerlo in modo diretto in This Losing Fight. Ma il percorso di Sirens diviene un viaggio visionario, ricordi trasfigurati della strada che richiamano il Jay Farrar nel periodo degli Uncle Tupelo dove cancellano le coordinate di spazio e tempo.
L’armonica e il piano tra Angry Eyes e Last Call At The Eschaton, la steel e gli archi di Radio Can't Rewind (all’altra intensa ballad di The Tree), un ‘eden’ di aria pura e acque limpide alla confluenza tra California e Texas, basta solo riconoscerla come nel richiamo di Virginia Calling. Seppur il cinismo è mascherato e ribaltato dalle chitarre in Turn it Up e Life In Shambles (ospite Johnny Hickman) i differenti piani melodici si rivelano come cerchi nell’acqua, si stringono intorno ai Sons of Bill fino a materializzarsi in Sirens.