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I fratelli Clifford, Aled (voce/chitarra) e Brennig (percussioni) scelgono un nome originale,
Henry’s Funeral Shoe -chi sarà mai Henry? E il funerale? Ad un paio di Boots?- il duo gallese sulle scontate connessioni con la loro terra che arrivano dal titolo (
Donkey Jacket è il classico cappotto operaio inglese), si dondolano ancora con agilità in uno sporco blues/rock e al momento opportuno, abbandonano le sponde di un Delta Mississippi, potente ed elettrico, e scelgono tranquille isole acustiche.
Nel seguito di
Everything’s For Sale, 2009, le atmosfere sono ancora cupe, gli spazi angusti e claustrofobici a sentire la splendida apertura di
Be Your Own Invention, ma c’è un elemento di differenza rispetto all’esordio e sta nella diversa ‘illuminazione’ delle chitarre, più scure, torbide, plumbee, fangose come in
Love Is a Fever,
The Walking Crawl, una indiavolata
Gimme Back My Morphine e
Dog Scratched Ear.
Ma sorpresa, quando entra in scena la special guest John Edwards (mandolino, armonica e slide guitar)
Donkey Jacket inizia a muoversi alla ricerca della luce, piccole perle come
Bottom to Top, con
Heart On Fire ed
Across the Sky che ricordano il miglior
Ryan Adams, il buio lungo la strada per
Henry’s Funeral Shoe si fa meno fitto. Bagliori affidati anche all’armonica nelle limacciose
Anvil & Chains,
Mission & Maintenance,
Donkey Jacket mentre si avvolge a spirale su se stesso, riesce a concentrare e restringere il campo d’attenzione dell’ascoltatore sullo strato del Blues, esistente tra il fondo e la superficie di un torvo Delta Mississippi dove galleggiano gli
Henry’s Funeral Shoe.