Soul, country, folk e il sapore di un pop-rock fisico, sensuale. Un bel colpo dalla band dell’Oklahoma dei
The Damn Quails alla gamma di colori –oramai sbiaditi- del sound Red-dirt, i vocalists/songwriters Gabriel Marshall e Byron White (si scambiano microfono e canzoni, 7 a testa) si affidano all’esperienza dello strano duo
Mike McClure e Joe Hardy per l’esordio di
Down The Hatch, disco non certamente ricco di originalità, ma il rischio di edulcorate canzoncine radiofoniche e di mielati refrain commerciali è efficacemente scongiurato grazie alla ‘sostenibile leggerezza’ di una strumentazione legata alle radice del country (armonica, piano, violini, lap steel) e non ultimo, la capacità di amalgamare la melodia a uno straccio di storia nel tentativo di uscire dall’anonimato ( ‘
band that’s pretty well known in their hometown and surrounding areas’ to ‘
band that’s becoming somewhat known on the Texas circuit, has a single on the radio, and is trying desperately to work it’).
Il tentativo trova basi interessanti dalla piacevolezza agreste di
Better Place To Stop e della dolce ballad di
Through The Fire con nel mezzo
Midnight Swagger abbastanza densa da permettere a
Down The Hatch di procedere come cerchi concentrici, abbordando lo stereotipo del pop ma abbandonando la nave prima che affondi. Sulle prime, questa specie di cortocircuito melodico spiazza (provatelo, tra i violini di
Another Story e
Iceman, l’alcolica
Fool's Gold, la lap steel, piano e rimandi pop tra
Parachute,
Mary e
So So Long al ritmo di
Quicksand).
Ma –a poco a poco- si rivela la carta vincente dei
The Damn Quails, i quali riescono a riscrivere la natura di
Down The Hatch all’interno di una formula che sembra un rituale, un passaggio comunque necessario verso il grande pubblico, ma riuscendo a sottrarsi alle canonizzazioni del commerciale (ascoltate l’amabile ballata elettro-acustica di
California Open Invitation, la puntata roots-texana di
Me And The Whiskey, le conclusive
Down e
Dollars). Di tali sbandi sarete alla fine, cedevoli complici.