CHURCHWOOD (Churchwood)
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  Recensione del  31/10/2011
    

Avventuroso debutto quello dei Churchwood, blues selvaggio e innovativo che Joe Doerr –voce e armonica- si è portato dietro da St.Louis, un cocktail particolarmente denso di influenze (delta mississippi, swamp/funky e rock) musica di atmosfera da un gruppo di musicisti cresciuti artisticamente ad Austin tra bands punk-rock, bluegrass e country (“Churchwood is the sum of all its parts; and those parts are pretty diverse. We are Churchwood, and we meant to do that.”).
Il chitarrone di Bill Anderson è sempre in primo piano su ritmi ossessivi e gravidi di nebbie psicadeliche, gli studi di poesia moderna di Doerr aiutano le liriche a varcare le barriere del reale per imbattersi in serpentelli e vortici interpretativi particolari e intriganti. Churchwood si contorce sin da Pontiac Flanagan e la deliziosa Rimbaud Diddley, montaggio di stili che spezza, moltiplica e dilata nel tempo del blues e delle chitarre ma Churchwood è come un fondale multiplo, cangiante e magmatico. Ecco l’ipnotica Vendidi Fumar (I Sell Smoke) a celebrare fumosi rituali propiziatori da sacrificare al dio blues onnipotente di una allettante Ulysses e attraverso scoglilingue impraticabili e tronfi, dall’armonica di Melungeon In The Dungeon alla luciferina Supermonisticgnostiphistic.
Sperimentare è il filo conduttore, un appiglio che sembra far disperdere Churchwood, ma l’aggrovigliarsi non allenta la carica di un blues notturno e melmoso, dalle sponde del mississippi arrivano la splendida Pity The Noose, la sinistra bellezza di Can O' Worms e di Abraxas prima di chiudere con l’allucinata riflessione della spumeggiante Car Crash. L’esordio dei Churchwood rappresenta una sorta di ‘montacarichi blues’ tra una dimensione profonda e oscura e una dimensione solare ed emersa. L’una dentro l’altra e non in semplice opposizione o alternanza. Fatevi un giro.