Dopo essersi concesso una lunga ‘pausa operosa’ iniziata nel 2007 (“
Live at Billy Bob’s was like jumping straight into the fire: two weeks after putting the band together, we recorded the album, hit the road and did 250 dates a year. We never looked back”) e terminata con
Acoustic Live nel Natale del 2009,
Stoney LaRue dopo 6 anni torna in uno studio di registrazione. Ce ne son voluti 3 in quel di Nashville insieme al produttore Frank Liddell e al messicano
Mando Saenz che come lui, ben conosce le strade tra la California, Oklahoma, Texas e Tennessee, ma soprattutto ha portato alla luce memorie e materiali eterogenei, indizi di una forma ‘poetica’ tipica di Saenz (in ben 9 delle 10 canzoni, per
Wiregrass è intervenuto
Adam Hood) su cui
Stoney LaRue ha potuto dispiegare intuizioni sofferte, decifrazioni complesse, fluidità opache del genere umano.
“
I’d like to think I understand myself – and the world I live in”, dice LaRue. “
I’m a father. I’m a husband. I’m a friend. I’m an asshole sometimes. I’m a player. Maybe, too, I’m trying to figure out how to share something with people that will draw them deeper into who they are, the way music does for me. I don’t know if this record will do those things, but I sure hope it might.”
Il risultato di
Velvet costituisce uno dei punti più alti di una breve discografia (ma momenti minori non se ne trovano)
Stoney LaRue sviluppa l’ibrido roots degli esordi, lo miscela al country di steel, violino e chitarre elettro-acustiche (gran lavoro di Oran Thornton e Randy Scruggs) in
Velvet trovano ampio respiro, seppur sfumato all’avvio con la dolce ballad di
Dresses, il tempo necessario affinchè abbia luogo una parata di spettri quotidiani che Stoney LaRue amplifica e deforma sin dalla splendida
Wiregrass.
Nel tempo del roots che incarna corpi e cose,
Velvet inizia ad attorcigliarsi alle tradizioni del country, LaRue non si limita a celebrarle,
Look At Me Fly va ad incanalarsi sulle rotta delle vere cowboy story di
Cody Jinks -gran songwriter nascosto nel sottobosco florido texano, si scoprono intriganti silenzi in
The Travelin’ Kind, ma nell’apparente staticità continuano a brulicare differenti volti melodici tra i contrasti della realtà quotidiana.
Il lato bluesy dell’armonica nella brillante
Sharecropper e nelle gradite sorprese di
Sirens e
Te Amo Mas Que La Vida dove i valori dominanti della fisa, lap steel, slide e violino delineano una invidiabile freschezza che conduce ad una sorta di continuo e sublime rovesciamento tra i sapori tex-mex e quelli country-roots sparsi tra
Has Been e la splendida accoppiata finale di
Way Too Long e la lunga ballatona di
Velvet. Privo di un perimetro, un bordo, capace di arginare la fiumana di suoni che tumultuano senza limiti e freni, questo è
Velvet, il gran ritorno di
Stoney LaRue.