Ha scelto Luckenbach per presentare il disco d’esordio, il luogo ideale per lasciare passare l’aria del West tra i racconti di cowboys, fattorie e vita da ranch.
Jake Martin è un cantastorie che si tiene alla larga dalla metropoli, da quei moderni ‘professionisti della musica’ tutti vestiti allo stesso modo ed elegantemente, con quella cortesia untuosa e caramellosa che cercano di recuperare attraverso la musica.
Jake Martin è un cowboy, parla da cowboy, ragiona come un cowboy ed è per questo che vive una intollerabile minaccia alla propria autonomia da songwriter tutto ciò aldilà della propria staccionata texana.
Jake Martin è un bel disco elettro-acustico, lap steel, mandolino, aria di confine, violino e country-western, basta la leggiadra bellezza di
Passin' Cactus con annessa analisi dell’uomo destinato a ‘marcire’ nella sua rabbiosa incapacità di capire il mondo, la fortuna di molti. Splendido il roots baciato dalla steel di
Made To Be Free, la malinconia si attacca alla chitarra come il violino a
The Trade ed entrambe prendono quota in fretta.
Jake Martin è vicino agli squattrinati e agli outsider, alla coscienza della strada e della vastità del territorio texano, mandolino e violino accarezzano un’altra convincente ballad come
Buzzards In the Pen, si respira la polvere al di fuori del saloon tra
A Hundred Years Too Late e l’intensa riflessione di
Texas in Deep Cold Well, piccoli sussulti elettrici sparsi anche in
Livin' A Try, nella sopraffina
Not Hangin' Around e conditi anche dalla verve alcolica in
Case of the Grays. Con la saggezza della splendida
Skippin' Stones si chiude
Jake Martin, un esordio obbligatorio per tutti coloro che amano il songwriting d’autore texano e soprattutto per quelli che sono convinti che John Wayne non c’entri nulla con la poesia.