Promette bene
Ben Morris e i
Boxcar's (tagliamo corto!), non si sono smarriti in soluzioni melodiche scontate e radiofoniche – e questa da sola è una buona notizia- non è certo un fiume in piena di sapori di periferia
There Is No Fun In Funeral ma le chitarre sono tirate a lucido, badando a non soffocare le felici intuizioni degli esordi.
Ben Morris resta ancorato ai toni algidi di energiche rock-ballads notturne che si riflettono sulla nostra società sin dall’avvio di
Man On The Mend e
Nothing To Fear But Love Itself, ma se l’esistenza non brilla di luce propria, ci pensano gli spunti chitarristici di Coby Tate a farsi breccia tra un misto di radici e roots -comandano le steel nelle splendide
Tradition e
John Wilkes Phone Booth- e tra il sapore di whiskey e rock texano così limpido in
Hay Fever e
Old Black Buick.
Un caleidoscopio di frammenti così luminoso, un mosaico di tessere, un puzzle di stili tutti da disegnare per
Ben Morris and The Great American Boxcar Chorus che non reinventa nulla ma con il lato tenebroso e metropolitano di
Come Closer (la carta vincente è l’aggiunta del violino),
Happy Birthday, alle due facce di una
Chicago e
Nosey dove cerca tra linee classiche del rock per poi mischiare le carte, ma senza lasciare l’amore in bocca.
Particolarmente imbizzarrito nel finale, la densa penombra urbana è rotta da fasci di luce in
Walls, anche texana in
My Own, tanto da frammentare la visione lineare di
There Is No Fun In Funeral nei 18 minuti conclusivi divisi tra l’incantevole
Carlos Ray e
Gracias, la slide è sempre la stessa, non smette mai di accompagnare
Ben Morris e i Boxcar's, capace di catturare le ultime luci di
There Is No Fun In Funeral mentre si riflettono, tra i ringraziamenti dei protagonisti, sull’asfalto bagnato del Texas.