WILLIAM ELLIOTT WHITMORE (Field Songs)
Discografia border=Pelle

        

  Recensione del  28/08/2011
    

La fattoria di famiglia, 160 acri lungo le rive del fiume Mississippi. Vita semplice, ideale per chi è perennemente in fuga. Davanti all’abbraccio della natura non si può che rallentare: protegge, conforta e riscalda come la meravigliosa voce di William Elliott Whitmore. Field Songs è ancora un disco di protesta, quella politica risale al tempo di Bush e aveva infiammato l'ottimo Animals in The Dark -2009-, paragonato giustamente allo Springsteen graffiante di The River, soprattutto per il modo con cui il ‘Boss’ non parlava di un’industria in generale ma della Johnstown Company, per Whitmore nella cultura americana non c’è un’economia in generale, ma c’è un padrone, in carne e ossa che ti sta di fronte e ti guarda negli occhi.
Una manciata di ballate folk-roots (solo 8 brani) la scena è acustica, di quel banjo legato al passato (Hymns for the Hopeless, Ashes to Dust e Song of the Blackbird, una trilogia sulla morte, ispirata dalla scomparsa dei suoi genitori), non c’è corrente in mezzo ai campi per dare energia alle chitarre elettriche ma la progressione melodica è colma di possibili derive (deliziosa la timbrica monocorde di Don't Need It), tra guerra e storia in Let’s Do Something Impossible, dolore e lavoro che vivono nell’intensa Bury Your Burdens In The Ground ma anche se nascosto c’è un profondo amore per la terra dove è cresciuto.
"We're gonna do some work, spend a day digging in the dirt," canta nella title-track, splendida nel suo schema semplice, colto, sghembo e insieme finissimo in Everything Gets Gone e Get There From Here. "I kind of predict a return to the small farm," dice Whitmore. "A lot of them got swallowed up by a lot of the big factory farms, and that was just sort of the way of things", Field Songs anche nel finale è disseminato di pause acustiche, bluegrass in We'll Carry On e rootsy nella brillante Not Feeling Any Pain, a dare spazio all’ascoltatore, per riflettere con se stesso durante l’ascolto.
Così sotto ad una quercia, nella desolata campagna campana di fine Agosto, mi fanno compagnia Field Songs e i versi di una poesia di Tarkovskij (padre del grande regista): «È fuggita l'estate, / più nulla rimane. / Si sta bene al sole. / Eppure questo non basta».