NICK 13 (Nick 13)
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  Recensione del  28/07/2011
    

Chitarrista della punk band dei Tiger Army, Nick 13 – numero scelto in ricordo del primo gruppo, Influence 13- è sempre rimasto legato a vecchi amori quali l’hillbilly music e l’honky tonk anni ’40, ’50 e ’60, lasciati maturare col tempo, quel tanto per riscoprirli alla soglia del primo disco solista. Il passo dalla sua California a Nashville è breve, ma la prima cosa che risalta sin dalla splendida ballad di Nashville Winter è la capacità di non far percepire gli evidenti scarti tra il passato e il presente, il passaggio brusco è affidato alla pedal steel del maestro Lloyd Green (anche il resto della band non scherza, musicisti del calibro di Josh Grange e Mitch Marine -leggi Dwight Joakam band- e il desaparecidos Eddie Perez) e su quella luce soffusa pastellata di ricordi, Nick 13 cerca di aprire il suo spirito e di ottenere una sintesi poetica del country.
Le canzoni spaziano tra le colline del Tennessee alla verde Kentucky, un album di puro ‘old country’ legato alla tradizione romantica e disillusa di uomini soli che vivono –per scelta o per costrizione- lontano da tutti e tutto, la malinconia che a tratti vi serpeggia innalza Nick 13 ad un alto livello di smarrimento esistenziale, in questo lo aiuta un timbro vocale alla Chris Isaak, specialmente in Cupid's Victim 2011 e In The Orchard 2011.
Ma Nick 13 trova il proprio passo, talvolta western in Carry My Body Down e nella chiusura di Gambler's Life, e specialmente quando riesce a comandarne il ritmo, nelle deliziose Someday e Nighttime Sky, Restless Moon a quella 101 che sembra racchiudere la storia a lieto fine di Nick 13, lui a bordo di una macchina che lascia la piccola cittadina californiana per spingersi a Sud, alla ricerca di una nuova vita. Andare via lontano, per poi tornare, sempre e comunque. Con un altro bel disco, possibilmente.