Tramontati i grandi racconti sociali e politici, impallidito il Partito della Chiesa, specialmente in Italia dove il ‘campanile’ è stato sostituito con la televisione, ci si aggrappa ai ricordi e al rock, quello classico, di chitarre elettriche legate alle jam e a magiche tastiere. I
The Tin Hearts, quintetto dell’Ohio nato per suonare musica dal vivo, riescono a catturare al secondo disco le atmosfere di un passato non molto lontano che si fa subito presente in
Angela Sutton e aprono suggestive strade in
Best of Intentions, alla voce di Matther Sullivan, alle chitarre di Andy Frederick e il batterista Mark Sims (molto bravo, tanto da realizzare un disco solista, Clouds of Dust and Fire).
"
I feel extremely lucky to have musicians that really buy into what we're doing," dice Sullivan. "
That is so valuable because [usually] everyone wants to be a rock star and no one wants to practice", c’è aria da barroom, polverosa e impastata di whiskey nell’incantevole
Been a good Year,
Sorrow Regret e
Times Like These, ma lo spazio è pronto a dilatarsi in
Steel Colored City,
All Alone e nel magnetico splendore di
Girl with the Calico Eyes,
No Good Deed se ne frega di facili appigli e dei piatti orizzonti melodici dei nostri tempi.
I
The Tin Hearts sembrano muoversi verticalmente, sopra e sotto, ondeggiando in su e in giù, nel rock anni ’60 e le chitarre come in
Everything Fades Away, impetuose in
Desert King, vitali nella splendida
Turnpike, lo dilatano fino a trasfigurarlo con i continui passaggi onirici delle tastiere, strumentale compresa,
Century Hop. Insomma
No Good Deed riesce a ridarci un’idea di come si stesse allora, tempo perduto e lontano, di come la musica in quel ‘crepuscolo’ nascesse dal piacere, dal lasciare tutto fuori perché si potesse vivere dentro.