HALFWAY (An Outpost of Promise)
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  Recensione del  16/03/2011
    

Si sa, i luoghi della bellezza non sono immuni dall'assedio del tempo. Nessuna stanza o dimora, nessun'isola di miele o di luce può essere difesa a lungo dalla corrosione, ma nella musica sembrano esistere arcadie, boschi sigillati e la band australiana degli Halfway ne ha scovato uno dall'ottimo esordio di Farewell to the Fainthearted e lì hanno messo radici.
Certo lo spazio si assottiglia (una squadra più che una band, ben 8 elementi tra pedal steel, organo, chitarre e banjo) ma la ricetta resta la stessa anche al terzo disco, An Outpost of Promise, di bagliori rock anni 70’ e dell’american roots che si incrociano sin dalle prime note di Oscar, a scongiurare una desertificazione autoriale e canzoni senza spina dorsale (basterebbe Sweetheart Please Don't Start), ma tutte le melodie degli Halfway bruciano ancora, come le chitarre, deliziose It's Ok, Stevie e Tell Them I Called, An Outpost of Promise arriva puntuale ma di certo non vuole imboccare l’ascoltatore con espedienti radiofonici.
La pedal steel della ballad di Monster City e della splendida Tortilla Code non le confina di certo in una posizione di pigra passività, stesso dicasi per l’armonica e il banjo di 110 o per la vagheggiante Bluebird Tattoo, l’originalità non si può serializzare, ne soffre solo The Old Guard, ma gli Halfway non sono diventati –e per fortuna- degli spenti artigiani del rock, di quelli che usano ago e filo per tenere insieme un disco.