Nella vita del frontman e vocalist della
Under The Influence Band si è sempre viaggiato molto, Lance Burnett prima di prendere in mano la chitarra (la sua preferita una Gibson Les Paul Classic) aveva un lavoro quotidiano per la Texas Department of Transportation.
Sulle strade del Lone Star State si finisce soprattutto e semplicemente per spostarsi, per cambiare di posto, ma al contrario dei viaggi ‘baudelairiani’ della modernità (‘partir pour partir’), la meta di Burnett ha assunto una qualche parvenza di senso, obiettivo e valore quando ha fondato la
Under The Influence Band: rock, roots e chitarre vanno ad intersecarsi, elidersi e accavallarsi fin dalla sfrenata
I'm Sorry, rendendo evidente una costruzione parallela tra donne, amici e la strada, attenti a sovrapporli significativamente con i diversi livelli del viaggio.
Sotto il sole cocente, nella libera periferia, lo scopo è anche quello di mettere in forma un mondo che si perde e si sperde di continuo, un mondo che perderebbe e si smarrirebbe di continuo se non fossero lì, amorevolmente, a rimetterlo in sesto le canzoni di
On The Edge of Nowhere: da
No One There To Blame alla coriacea
Paranoid Blues, riff e affreschi agrodolci sempre diversi e sempre uguali, frizzanti in superficie ma retti dal sapore non sempre dolce della vita quotidiana, scariche elettriche e roots verace.
Difficile non incensare l’originalità alla
Under The Influence Band nella sana jam di un altro brano solido come
Crashin Down che li pone come tra le band più interessanti della scena rock indipendente texana ed è difficile restare indifferenti davanti allo sfoggio agreste della splendida
Don't Say We're Through, un brano che arrichisce di nuova energia vitale il texas-roots che sembra vivere di una infinita giovinezza.
Hope ma anche
Let It All Go, rappresentano l’altra faccia del genere, ballads elettro-acustiche cuore in mano ma niente smancerie, Lance Barnett, Jeremy Jowers e Rodney Janes curano sempre a dovere lo spazio delle chitarre, seguono una geometria esistenziale, peripezie amorose frazionate che creano distanze, ma quando si riavvicinano, immettono la ferrea
Corn Whiskey e l’urto è di quelli che scuote, e dura a lungo, fino alla fine per l’appoggio di altre due perle,
The Storm e
Down This Road Again. Si bevono il vuoto attorno, pieno solo delle cose che non servono. Basta
On The Edge of Nowhere per lasciarsi dietro tutto il peso di un mondo non illuminato.