Pur non riuscendo a eguagliare l’equilibrio e la freschezza dell’ottimo debutto del 2008,
I Did All This,
Chancy Bernson corregge le traiettorie roots e stradaiole, gli eccessi della telecaster, per un suono leggermente più radiofonico ma nel panorama texano continua a contraddistinguersi per barlumi di grazia e di genuino talento che rigirano anche in
Changes. Proprio dalla piacevole title-track ma anche dalla brillante
Cigarettes, oltre alla sponda chitarristica di Max Neal è l’organo, il banjo, l’armonica (ma complessivamente, la strumentazione resta molto ricca) a trovare lo giusto spazio sull’evoluzione di sentimenti, lasciando affiorare dei pertugi molto intriganti da affiancare a rock come
Amarillo e
New York City che appaiono come uno specchietto per le allodole, ma hanno molto più consistenza perché la ricetta non è sempre la stessa e con i soliti ingredienti.
Insieme alla steel che arde e mette in chiaro una ballata come
Just a girl, si impone un occhio che vigila sulla tradizione del country-roots come per i violini di un altro brano sincero e appassionato, l’elettro-acustica e fiammante
Red Dirt Town e di
Hurricane, l’unico brano che non è farina del suo sacco, scritta da Gary Wayne Thomason (penna anche dei The Great Divide), un brano acustico toccante, autobiografico, che attraversa la sua vita.
Lo sviluppo di
Changes lascia intendere che
Chancy Bernson non è semplicemente un diligente confezionatore, illustra tra whiskey e l’introspezione malinconica della splendida
Getting By, momenti di frattura che ci consentono di godere di altre improvvise e imponderabili estasi,
Rescue Me è da incorniciare, come il mandolino e la fisa in
The War e il graffiante roots-rock di
Somebody's Baby in chiusura. Come su due teatri diversi, le canzoni di
Chancy Bernson non recitano mai contemporaneamente la stessa pièce, né nella stessa lingua né nei medesimi tempi.