‘Se non posso piegare gli dei celesti smuoverò quelli infernali’, verso Virgiliano adattabile col sapore di un blues sporco e melmoso, a questo trio del Massachusetts che lo attacca al collare del simpatico cagnone raffigurato sulla cover di
I Get Blamed for Everything I Do -secondo disco registrato in Texas per la Hillgrass Bluebilly Records- e ve lo spedisce a casa. I
Ten Foot Polecats capitanati da Jay Scheffler masticano amaro, bevono whiskey e sputano sentenze mentre Jom Chilson sembra essere posseduto dal diavolo, groove forti e continui non mollano un attimo l’ascoltatore fin dalla rovente
Chicken Head Man dove la mancanza del basso non lascia strascichi, una band muscolare tutto cuore e passione per il blues intravista nell’esordio del 2009
Sterno Soup, una produzione indipendente.
L’approccio è semplice, la scena è scarna, due chitarre e una batteria, sanno ipnotizzare nella splendida
So Good to Me, amano molto passare l’amore sotto un ferro da stiro, stirano i sentimenti in cui si muovono magnetici refrain, raramente scendono sotto i 4 minuti per un’ora immersa nelle acque torbide del Mississippi. L’armonica è vitale nel ritmo fluido di
Tears On My Windshield,
Dryspell e della strumentale
Scratch Ticket, sanno mettere le cose in chiaro oltre all’energia, squadernano confini e mete, linee e forme di un blues chitarristico e appiccicoso in
Big Road intersecandosi sulle sue onde e continuando a navigare, ma stavolta da fermi nell’intenso torpore delle incantevoli
Brokenhearted e
Couple More Miles, la velocità si attenua e si passa dentro uno spazio quasi immobile, sembra quasi affondare.
I
Ten Foot Polecats sono concreti, materiali e perché no, profondamente malinconici,
I Get Blamed for Everything I Do è sempre terribilmente seducente, intorno ad uno stuolo ‘rumoroso’ di chitarre espongono passioni al crudo nella schietta e dura
I’m Going Crazy, non risparmiano energie nella deliziosa
Bar Hoppin' in giro tra bar, soldi e donne, l’armonica accompagna alcoliche disamine di vita anche in
Squeeze,
Peavine fino agli ultimi bagliori nei 7 minuti di
See What My Buddy Done. Un flusso ininterrotto di ‘dirty’ blues, chitarre e parole combinate con la grazia astratta e muscolare dei
Ten Foot Polecats.