Whitey Morgan sceglie di aprire il nuovo disco con la cover di
Bad News, scelta non casuale come quella di lasciarla consumare dalla telecaster, ed intriga oggi come nel 1960 quando la cantava
Johnny Cash. La steel si accoda alle tradizioni del country nel rispolverare la lugubre ballata di un uomo in viaggio “
I’m bad news everywhere i go” che lascia solo problemi e cuori infranti sul proprio sentiero.
Quella accesa da
Whitey Morgan and The 78’s (un disco “
for hard workers and hard drinkers—or people who just like to hear songs about them”) è una fiamma che sbriciola i contorni di oneste pagine di vita reale, viaggiando attraverso il tempo del country e marcando a fuoco, corpi, oggetti, luoghi che partono da Flint, nel Michigan e attraversano l’America spaziando tra cover illustri degli anni 70’ e 80’ (di Paycheck, Watson, Cochran) e brani originali su cui si adagia la voce decisa di Whitey Morgan, a segnare non solo corpi e figure, ma contorni, slabbrature progressive di luoghi frequentati da anime in pena.
In
Turn Up The Bottle canta “
If I’m going to drown in my misery/ I’ve got a good place to start”, in
I Ain’t Drunk invece “
I ain’t drunk / I’ve just been drinkin’ / I started at five in the afternoon / About three days ago”, e si inizia a gironzolare nei bar lungo la strada con autentici racconti di cuori spezzati immersi nell’alcohol che inglobano anche la deliziosa
Where Do Ya Want It? di
Dale Watson, racconto di uno spiacevole incidente tra
Billy Joe Shaver e un proiettile accaduto fuori il Papa Joe's Texas Saloon.
Honky tonks e rock ruspanti con il violino di Tamineh Gueramy a far da collante, oltre al whiskey, ovviamente! Con la fisa che accompagna la splendida
Cheaters Always Lose, Whitey Morgan ci fa capire il perchè tutti questi uomini vivano da single, nella scoppiettante
Buick City "
a desperate-man-goes-to-the-big-city” con una brillante armonica nelle retrovie che arriva dal Sud Kentucky nella storia del ragazzo protagonista di un’altra perla come
Hard Scratch Pride, in quei luoghi hanno vissuto la perdita di lavoro, di depressione, terre di mobilitazione, di migrazioni per una vita migliore, storie di vita raccontate nel notevole esordio di
Honky Tonks and Cheap Motels e riprese anche in questo secondo disco, fino alla cruda verità di un venerdì sera targato
Honky Tonk Queen, dove canta “
She ain't no honky tonk angel, she's the honky tonk queen” e c’è una bella differenza!
Nel mezzo qualche altra cover, funziona sia l’intensa ballatona
Memories Cost a Lot di Hank Cochran che il Johnny Paycheck della festaiola
Meanest Jukebox In Town, prima di rituffarsi nella scura e sinistra conclusione di
Long Road Home (meravigliosa se l’accoppiamo alla bonus track di
On The Road Again), quella strada su cui divorano miglia e miglia di territorio, si riappropriano fisicamente delle distanze e anche se può capitare di perdersi, può anche capitare che ci sia un posto dove potersi ritrovare.