STONEHONEY (The Cedar Creek Sessions)
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  Recensione del  01/12/2010
    

Ritornano le armonie vocali anni 70’ tanto care a CSN&Y con questo quartetto di singer-songwriters e strumentisti di Austin (Shawn Davis, Phil Hurley, David Phenicie e Nick Randolph), a sfondare le barriere dell’individualismo ci pensano il rock, country music, americana e il sound della California dove tutto è iniziato, “We’d just hang out and play music,” dice Randolph. “It was such a great, carefree time. We weren’t thinking about our careers; we were just enjoying the music and each other’s company.”
Per focalizzarsi sul progetto Stonehoney si sono spostati ad Austin, una città che permette a chi sa suonare e scrivere buona musica, di trovare in brevissimo tempo la giusta ribalta: “People weren’t interested in whether we were hunky; they just wanted to know if we could play and if our songs were any good. It felt like we’d come home”. Ecco il perché dell’incisione live dei 14 brani in solo 4 giorni con un materiale originale che ne contava almeno una quarantina, tutto d’un fiato perché lo spirito del progetto è nato solo nel momento che i quattro musicisti si sono ritrovati al Music Road’s Cedar Creek Reconding Studio, cercando di restare fedeli alle atmosfere di incisioni celebri entrate nella leggenda: “That’s how The Beatles and The Band made their records, and it’s how all the classic jazz records were made, with a group of guys in a room looking at each other and playing together. And if it was good enough for those guys...”.
The Cedar Creek Sessions parte con il piede giusto, nello spazio vibrante di Two Years Down e Lucky One c’è un’alta disposizione espressiva e, in un certo qual modo, di libertà, le voci si mescolano, come le chitarre che donano spessore alla vena introspettiva di intense ballate come Headlight On a Midnight Train e There is Light, gli Stonehoney amano scavare in profondità, non c’è spazio per l’elogio dell’effimero ma incitano ad essere realisti, nella vita relazionale di Dance With You Tonight e Little Angel -con tutti i pro e contro- o nelle toccante Good as Gone, una lettera amara sulle conseguenze che a volte anche un piccolo errore può avere su un’intera vita.
Nelle ballate sanno distillare tutte le potenzialità solistiche, dall’altra le armonie vocali sanno avvolgere riflessioni e desolazione con la carica del rock, splendide Fallin' Apart, I Don't Wanna Go Home e Feels Like Home, col piano honky tonk di Earle Pool Ball nella sfrenata e deliziosa White Knuckle Wind (le special guests annoverano anche la batteria ex-Wilco di Ken Coomer) che fa brillare anche la malinconica Still Gonna Sing Your Song.
Ad ascoltare l’incantevole chiusura di The Cedar Creek Sessions tra i paesaggi del Lone Star State di Texas Sun e nella schitarrata di Feel Like I'm Gonna Die, non si potrà negare il fascino delle melodie e una certa piacevolezza di scrittura, un dono non insolito per gli Stonehoney capaci di trovare al disco d’esordio un compromesso onorevole con le regole del mercato discografico senza dover abdicare alle proprie ambizioni autoriali.