RYAN BINGHAM & THE DEAD HORSES (Junky Star)
Discografia border=Pelle

        

  

  Recensione del  31/10/2010


    

I’ve been a desperado in West Texas for so Long, Lord, I need a change…” cantava in Mescalito, ebbene dopo il successo meritato di The Weary Kind qualcosa è cambiato per Ryan Bingham: “When there are a lot of people around saying 'look, you have to capitalize on this and do something really commercial,' you might think about it for a second”, spiega Bingham. “But I couldn't get up in front of people and play a bunch of stuff that didn't mean anything to me."
A sentire la versione della meravigliosa That’s How Strong My Love Is di Otis Redding contenuta nella Levi’s compilation (oramai è richiestissimo) e quest’ultimo Junky Star, sebbene il mondo gli stia addosso, il commerciale lo talloni da dietro, Bingham ne annusa gli odori ma tira avanti sebbene lo spirito del Texas non sia proprio in prima fila, almeno nelle liriche.
Sì perchè al contrario di Tony (il personaggio che recita nel film e con cui ha vinto l’oscar per la colonna sonora di Crazy Heart) tende a mischiare lo spirito solitario ed errante del western con i paesaggi metropolitani, dall’avventura lungo strade dell’ultimo Roadhouse Sun si sposta più verso la California. I testi non immortalano solo il paesaggio naturale e umano della provincia americana, quello che Bad Blake col mito nostalgico e struggente dell’artista consumato dalla musica e dalla vita rappresenta perfettamente mentre si sposta tra un locale e un altro (davvero superbo Jeff Bridges - premio oscar meritato- protagonista del classico film ‘fatto’ dall’attore).
In Junky Star, quarto disco prodotto da T-Bone Burnett che guarda caso ha collaborato al soundtrack del film, l’avventura di quelle strade (fatte di ferro nella struggente Lay My Head On The Rail) che si perdono all’orizzonte verso città arse dal sole dove il vento, la polvere, il cielo si mischiano ai sogni, stavolta si popolano di anime disperate e gli scenari diventano scuri, danno morte o s’incamminano verso di essa, e c’è molto sangue e lacrime: dal ‘dead man’ di Hallelujah che vaga come un fantasma all’ardente splendore di All Choked Up Again dove il protagonista uccide il padre e si abbandona al pianto "Everyday I seem to dig a little deeper into nothing that is left behind", la malinconia di Self-Righteous Wall, alla cupa bellezza di Hard Worn Trail, all’amore ed eroina, nell’intensa bellezza di armonica e chitarra della sofferta The Poet tra "shelters and shambles" dove la solitudine del mondo sembrano averla tutte, sia nel sangue che negli occhi.
Nell’intensa Depression l’occhio esige di spendere sul proprio corpo il tempo necessario affichè affiorino latenze sommerse di un’anima in pena in fuga verso il Golden State: “I’d rather lay down in a pine box / than to sell my heart to a fuckin’ wasteland” o quando "...sleeping on the Santa Monica Pier, with the junkies and the stars", nella title-track.
L’armonica gioca un ruolo fondamentale in Junk Star, sia nelle ballate acustiche (meravigliosa Yesterday’s Blues) dando all’incedere roots il compito di separare i colori dalla tinte tragiche in altri brani splendidi come The Wandering e Strange Feelin' In The Air con qualche veduta politica in Direction Of The Wind, in un certo senso ottimistica. Ryan Bingham & The Dead Horses in Junky Star filtrano atmosfere angoscianti, disperate, e ne ricavano ancora una volta musica densa e d’autore. Bel disco, il talento è vivo, ma la speranza e che se ne torni tra le vallate del Texas come farebbe un eroe western.