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Di giornate a tutta birra, a suonare per l’intera notte ne hanno accumulate fin troppe
Mic Harrison e la The High Score, per impedire che appesantiscano ed accechino la loro spontaneità, c’era bisogno di un leggero cambio di direzione, una strada dove ritrovare la spontaneità anche dell’alt. country senza dimenticare il brivido del rock. “
I think it's our best album by far,” racconta il chitarrista Robbie Trosper a proposito del loro terzo disco,
Great Commotion,
“Sometimes when you're playing shows, you can't really tell that you're getting tighter, but when we started recording this, I think we all realized we've become a better band”.
Non è tanto per la partenza al fulmicotone di
Do You Wrong e
Talk To You Tonight, di fronte alla quale l’ascoltatore ripone buone speranze (ed infatti il disco è uno di quelli capaci di mantenere l'intensità delle premesse iniziali),
Great Commotion è un concentrato di quella vibrante spudoratezza festaiola dei primi dischi con l’aggiunta del tocco da maturo songwriter. Di sentimenti capaci di accendere bagliori in
When I Stumble o lungo le strade della splendida ballata di
I'm Still Lost, nei fiammanti solo di
Keep On Letting Me Down o della trascinante (testo davvero curioso!)
Hiram Couples.
“
The songs are sometimes fiction, sometimes truth, and sometimes a mix,” aggiunge stavolta Harrison, “
You can’t tell all the truth all the time, or you’ll get yourself into trouble” e così le liriche di
Great Commotion si confondono tra reale, sogno, memoria, immaginazione e spirituale e la miglior band dell’East Tennessee man mano che il disco scorre, non perde mai la strada maestra assumendo dosi sempre ben calibrate di rock, roots e country,
Glass Bones e
Early Grove sono dei gioiellini in questo senso, con l’alcolica bellezza di
I Can Tell si scopre che
Mic Harrison è capace anche di lasciare il microfono agli altri componenti della band, e si scopre che gli
High Score hanno un cuore country in preda ad una ‘malattia’ che solo la musica può salvare.
Great Commotion si lascia vivere fino alla fine, non appassisce, dalla rivelatoria schietta e lucida bellezza delle solide
Out of Clinton e
Can't Start Over, all’ipnotica slide di
Interstate Wall che cattura l’ascoltatore allo stesso modo dei racconti dell’acustica
South Knoxville Way. Un concentrato di stili che trova la summa nell’intensa e meravigliosa chiusura di
Jelico, metaforicamente la si potrebbe definire come una cornice che si mangia il quadro, anzi, è insieme il quadro, la cornice, il pennello e il pittore.