Kirk Van Praag ci spara subito due fari in faccia con la splendida ballata di
East Texas, quella voce rasposa eredità di anni di whiskey e tabacco, chitarra acustica da tradizione folk alla Woody Guthrie o Dylan se non fosse per il piano e una dolce sezione fiati che sospinge malinconicamente queste storie di outsider, di vita vissuta ai margini, di coloro che non hanno poi tante vie di fuga in un universo sempre più simile ad una trappola: “
Misery loves company but goes home alone. Turns on the TV but stares at the phone.”
Ha esordito nel 2004 con
The Wrest e come allora con
Town Crier la musica non precede le parole, come si dice di solito, perché in brani come
Everybody sins sono le liriche a condurre il gioco, d’accordo, la musica dà ali alle parole, ma queste parole, prima di volare, devono farsi sentire e capire, altrimenti avremmo aria fritta e non il caso per il texano
Kirk Van Praag. Questo dopotutto salva
Town Crier da un’anonimato da puro stampo folkaiolo –saggiate la fisa che accompagna
Guess, il piano con la lap steel del lamento sull’evoluzione del nostro mondo di
King for a day, ma dopotutto la vita è la vita; niente di più nella splendida
Mercy e ci mancherebbe, con tutto quello che già si porta con sé (quantomai azzeccata la scelta del violino).
Preferisco l’uso del piano in
Pearly gates o nella title-track adatto a descrivere concetti filosofici: “
It's lonely at the top, it's lonely at the bottom, It's lonely in the middle, so smoke 'em if you got 'em” alle solitarie -o quasi- chitarra e voce di
Pony o
Rehearsed, ma bisogna tranquillamente riconoscergli che la scelta di un profondo spessore ‘pessimista’, di quella percezione di oggettiva e suggestiva componente di vita reale -come racconta nella intensa
Simon says o in quelle perle (armonica compresa) di
Sunday best e di
Wipe the smile-, trova sempre terreno fertile nelle sue ballate (unica eccezione la vibrante
This ole world). Quando si dice importanza dello stile e dei contenuti. Non sempre le frasi fatte sono fasulle.