Il duo
Aaron Moreland & Dustin Arbuckle torna sulla terra insieme al batterista Brad Horner sotto forma di trio, ad ingigantire, innalzare all’ennesima potenza una miscela di ruvido delta blues e musica delle radici, trovando una scrittura discografica con quest’ultimo
Flood, quarto disco dopo tre autoprodotti alle spalle (
Caney Valley Blues del 2005,
Floyd Market del 2006 e
1861 nel 2008, anno particolare che li ha portati in Iraq a suonare per le truppe al fronte). I 13 brani di
Flood trasformano in essenza la loro abilità di connettere i problemi della persona comune con l’anima che contraddistingue il blues, realtà allo stato puro suggellata in un incontro magico tra l’armonica di Arbuckle e la chitarra di Moreland.
Si sono conosciuti in un club di Wichita nel Kansas nel 2001 ma hanno suonato entrambi in band blues riuscendo a trovare la profonda essenza del cuore del delta del Mississippi insieme, “
We had a shared vision, in a place where there really wasn’t much interest in – or support for – country blues.” Moreland si unì alla band di Arbuckle alcuni mesi prima che questa si sciogliesse, ma da allora hanno continuato da soli, in quello che loro descrivono “
electrified Mississippi blues mixed with a sludgy, jam-oriented rock thing.”
L’armonica che ha il sapore del Mississippi apre il disco, un groove arcigno come
Hate to See You Go ci trascina in pochi istanti nel lirismo del blues, mischiandosi con le chitarre che arrivano da Memphis nella splendida
The Legend of John Henry, particolare non solo per essere stata registrata dal vivo ma anche per l’uso accanto alla telecaster della caratteristica cigar box, con la sua forma rettangolare, diretta discendente di quella suonata dai bluesman nei primi del 1900. Brani ‘spiritati’ in cui il duo descrive situazioni e storie che possono accadare a chiunque (da
In The Morning I'll Be Gone a
What You Gonna Do), personalizzandole quando occorre, con la strumentale
Before the Flood su cui scivolano i ricordi della perdita del padre di Arbuckle che hanno ispirato anche
18 Countries.
L’armonica è dolce nella leggiadria di
Your Man Won't Ever Know a tradurre in un groviglio di solitudini, dettagli, impulsi elementari, minime scelte (a)morali, si crede nell’amore “
I Love you baby” ma
Don't Wake Me (in the morning), cantano Moreland & Arbucke in storie che non prenderanno mai fughe imprevedibili, ma il puzzle si scombina e si ricombina attorno al blues in un continuo e nuovo disordine e piace sempre di più, dal piano da saloon nell’intro di quest’ultima allo splendore tinto di roots della rancorosa
Bound And Determined, della saggia
Can't Leave Well Enough Alone, tutte avvolte in un clima da barroom come nell’acustica
Red Moon Rising.
Non c’è un punto fermo, il centro, perché ce ne sono tanti (come tra le tastiere e l’impatto rurale nella doppia versione di
Can't Get Clear) tanti quanti ne puoi incontrare divagando nell’American Music: “…
There are elements of traditional country in what we do, elements of vintage rock and roll, soul and all that sort of stuff. We always ‘try’ to stay grounded in that traditional blues center”. Ci ‘provano’ appunto, ed è il punto forte dei loro dischi!