In Texas non è mai troppo presto per incidere un disco dal vivo, anzi per i polistrumentisti
Nathan Emory Rigney e
Clint Quinn Bracher, ovvero gli
Emory Quinn, dopo due bei cd (
Letting Go del 2006 seguito dopo due anni da
The Road Company) l’unico dubbio poteva essere dettato dal desiderio di adeguarsi alle aspettative del pubblico, rispetto alle quali la scelta successiva poteva apparire del tutto evidente, ma quest’ora energica registrata alla mitica Gruene Hall in quel di New Braunfels mette in chiaro che il quartetto non perde tempo ed occasioni per stilettare l’ascoltatore con il loro amore per la jam, affidandosi ad una strumentazione ricca e variegata, ad un po’ di humor e verve tipicamenti texani -che non guastano mai- ed ecco che
Live at Gruene Hall diventa uno di quei dischi che non lasciano via libera al marketing: tutte le energie sono assorbite dall’atmosfera che si respira in quel caratteristico luogo a un’oretta di macchina dalla città di Austin, il rapporto con il pubblico è l’anima del disco, l’immaginario consumistico diventa superfluo conta solo la musica tra quelle secolari panche di legno dove gli
Emory Quinn lasciano ricordi di una magica serata conquistando meritamente gloria e articoli di giornali.
Live at Gruene Hall è un gran bel disco di quelli che decollano sin dal primo brano, di quelli che non si sfilacciano mai (e parliamo di 14 brani!) assolutamente coinvolgenti, di quelli a mano a mano che entrano in gioco si preoccupano di lasciare il dovuto spazio alle chitarre riallacciando tra di loro un ruspante e alcolico roots, l’americana e la ballata folk-rock. Le ‘ruote dello show’ iniziano a stridere con i brani tratti dall’esordio di
Letting Go, dalla solida
Bring Me Own, all’armonica di una splendida
Change fino alle tastiere malinconiche che seguono il viaggio da Corpus Christy al Golfo del Mexico della meravigliosa
Come Around che risplende di una luce propria, di un fascino perverso quando i riff ne iniziano a far traballare il paesaggio, ‘
Set me Free Again’ riprendono a cantare in quasi sei minuti da incorniciare specialmente per aver posto nel mezzo una canzone dei
Felice Brothers, la festaiola
Whishey in my Whiskey, tutta alcohol e violini, una scelta quanto mai azzeccata!
Tocca poi al loro secondo disco
The Road Company, con dedica iniziale nel racconto di
The Sabine Story, di una serata in compagnia della ‘police’ che li pizzica con assicurazione scaduta, birre in macchina e in corpo, ma alla fine preferisce dilungarsi su di un loro disco lasciandoli andare via, inevitabile allora questo ricordo prima della splendida
Highways of Gold, altro limpido e tagliente esempio di americana (ascoltare il vortice di suoni nel mezzo di questo ennesimo omaggio alla strada). Si va avanti generando lontananza e malinconia con la dolcezza elettro-acustica di una perla come
Straight Through Me e una apertura al country nell’intrigante sviolinata di
Devil’s Disguise, decisamente più elettrica
Leave con la parte finale di
Live at Gruene Hall contraddistinta dal secondo omaggio, la meravigliosa
Downtown San Antone di Byron Capt: roots, tequila, fisa e Mexico, tra urletti e saggezza border, il coro col pubblico finale non può che portare alla memoria tanti bei momenti vissuti in quella terra.
Gli
Emory Quinn di certo non posso chiudere senza jammare, ecco una dietro l’altra le tenebrose
Blue Gone,
Ride,
Dear London (tutte ad oscillare tra i 7-9 minuti) con il bagliore roots dell’armonica di
The Road Company sulla cui riconoscibilità non si nutre dubbio alcuno. Proprio come la scia che lasciano gli
Emory Quinn, da San Antonio, Tx.