DAVE McCANN AND THE FIREHEARTS (Dixie Blue Bird)
Discografia border=parole del Pelle

     

  Recensione del  01/03/2010
    

I The Ten-Toed Frogs sono sempre al fianco di Dave McCann anche se non compaiono nel titolo del disco, hanno cambiato nome, oggi si fanno chiamare The Firehearts (“too much of a tongue-twister for drunken people who wandered up to me in bars” così McCann motiva la scelta) ma la line-up (Dave Bauer alla chitarra, il multi-strumentista Pete Loughlin al basso, Tim Williams alla batteria e la pedal steel tirata a lucido di Charlie Hase) è la stessa dei primi splendidi dischi -Woodland Tea del 2000 e Country Medicine del 2004- di questo bravissimo cantautore canadese che torna dopo il live del 2008, Shoot the Horse, ad incidere un disco di studio sotto la supervisione del produttore di Nashville Will Kimbrough.
DixieBlueBird riprende le strade e storie dei suoi esordi sebbene siano trascorsi 5 lunghi anni che lo hanno visto trasferirsi a Lethbridge, prendere moglie e celebrare il compleanno del figlio mentre con la sua band viaggiava verso gli studi di una Nashville vista con occhio critico, ma che alla fine ha regalato un signor disco con lo stesso vigore elettrico e con la stessa cura delle melodie, parentesi elettro-acustiche baciate dall’americana che come in passato aprono il nuovo disco: l’incantevole Unfamiliar Ground non tradisce la capacità di McCann di saper restituire in musica una ricerca della dignità al quotidiano, viene omessa la felicità perché attraverso la sua rappresentazione vengono oltreggiati la sofferenza e il dolore, vitali per uscire dall’oscurità, una scelta stilistica che come sempre confeziona con un mix di tonalità malinconiche ed elettriche, splendide sia Bloodpines che Road To Cain, la strada che serve ad espiare i peccati e su cui gira anche la ruvida Darkest For The Dawn col tocco agreste in più in Fireheart.
I contorni country restano ai margini ma la slide di Broken Bugs che costeggia le highways percorse da Dave McCann e dai Firehearts si immergono in colori lividi che li fanno somigliare a quadri di paesaggi anni ’70 a cui si deve poi guardare solo per nostalgia, la ricerca di se stessi simboleggiata dalla fascinosa lenta melodia di Standing In The River, più rootsy come la dolcissima Slow Train Home o nella title-track, un disco insomma pienamente umanista che si concentra e trova linfa vitale nella strada e nei loro personaggi, nei loro continui ripensamenti sul passato e l’incerto futuro, passioni che non speculano sui sentimenti da Tuscaloosa Blues al nostalgico country-swing della godibilissima Inferno. DixieBlueBird è un disco immediato, semplice, tanto da risultare sorprendentemente impeccabile. Gran bel disco!