Non sempre giova ad un artista con 14 album alle spalle un periodo -piuttosto lungo- fermo ai box, ma non è il caso di
Rober Earl Keen con
The Rose Hotel, il primo album di studio negli ultimi quattro anni, perché riesce a mantenere viva la lunga tradizione dei songwriters texani e del movimento Americana. E lo fa nel modo più elementare, senza confondere i suoi fan che ritroveranno il tocco melodico del texano ma anche un atteggiamento goliardico, per non dire deliberatamente scorretto con le sue vignette di vita tra il tragicomico e la beffarda ironia.
Undici canzoni prodotte e suonate (pedal steel, chitarra e dobro) dal celebre Lloyd Maines a cui piacciono le tradizioni ma anche il rock, e il contrapporsi nell’avvio, dalla title-track alla cover in versione elettrica di
Flying Shoes, non scalfiscono lo schema melodico classico di Keen anzi alimentano, solleticano e arricchiscono la musica di Robert Earl Keen: ecco le trascinanti
Throwin' Rocks e la ‘simpatica’
10.000 Chinese Walk Into A Bar cantata con Billy Bob Thornton, uno di quei brani tanto per legittimare la vena provocatoria del Texano, che diventa davvero suggestiva nel cinismo country di
Wireless In Heaven (“
Do I need a password to log in when I go?”), quei sani difetti dell’esuberanza e della generosità, ma non manca una certa delusione se poi si ascolta
Something That I Do o
Village Inn.
Poca cosa comunque perché i 20 anni di carriera sembra davvero non sentirli, dall’omaggio a Levon Helm con
The Man Behind The Drums, alla seconda cover di Greg Brown,
Laughing River, che divide con lui il microfono, al godibile roots-country di
Goodbye Cleveland -visto dall’ottica di un musicista e non può mancare la love story con lo spirito libero femminile narrato nella splendida ballata di
On and On. La luce del passato di
Robert Earl Keen non cambia a sentire
The Rose Hotel, qualunque siano i giudizi degli ascoltatori.