ROBERT EARL KEEN (The Rose Hotel)
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  Recensione del  02/01/2010
    

Non sempre giova ad un artista con 14 album alle spalle un periodo -piuttosto lungo- fermo ai box, ma non è il caso di Rober Earl Keen con The Rose Hotel, il primo album di studio negli ultimi quattro anni, perché riesce a mantenere viva la lunga tradizione dei songwriters texani e del movimento Americana. E lo fa nel modo più elementare, senza confondere i suoi fan che ritroveranno il tocco melodico del texano ma anche un atteggiamento goliardico, per non dire deliberatamente scorretto con le sue vignette di vita tra il tragicomico e la beffarda ironia.
Undici canzoni prodotte e suonate (pedal steel, chitarra e dobro) dal celebre Lloyd Maines a cui piacciono le tradizioni ma anche il rock, e il contrapporsi nell’avvio, dalla title-track alla cover in versione elettrica di Flying Shoes, non scalfiscono lo schema melodico classico di Keen anzi alimentano, solleticano e arricchiscono la musica di Robert Earl Keen: ecco le trascinanti Throwin' Rocks e la ‘simpatica’ 10.000 Chinese Walk Into A Bar cantata con Billy Bob Thornton, uno di quei brani tanto per legittimare la vena provocatoria del Texano, che diventa davvero suggestiva nel cinismo country di Wireless In Heaven (“Do I need a password to log in when I go?”), quei sani difetti dell’esuberanza e della generosità, ma non manca una certa delusione se poi si ascolta Something That I Do o Village Inn.
Poca cosa comunque perché i 20 anni di carriera sembra davvero non sentirli, dall’omaggio a Levon Helm con The Man Behind The Drums, alla seconda cover di Greg Brown, Laughing River, che divide con lui il microfono, al godibile roots-country di Goodbye Cleveland -visto dall’ottica di un musicista e non può mancare la love story con lo spirito libero femminile narrato nella splendida ballata di On and On. La luce del passato di Robert Earl Keen non cambia a sentire The Rose Hotel, qualunque siano i giudizi degli ascoltatori.