RICHMOND FONTAINE (We Used to think the Freeway Sounded Like A River )
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  Recensione del  02/12/2009
    

Il viaggio e la musica di Willy Vlautin continuano a vivere ‘on the road’, la descrizione di un allontamento in forma di fuga liberatoria dal passato, prossimo o remoto, è ancora capace di restituirci fotografie e luce del paesaggio industriale, della desolazione dei tracciati ferroviari, di cieli grigi, dello squallore degli ambienti che ci circondano ma i Richmond Fontaine in questo modo, giocano le solite carte che vengono mischiate col solito mestiere ma stavolta il mazzo appare più fiacco del solito.
We Used to Think the Freeway Sounded Like a River, titolo ‘chilometrico’ tanto per restare in tema, attraversa lo stesso universo di tristezza che univa Post to Wire, The Fitzgerald e Thirteen Cities, ritroviamo le doti da romanziere di Willy Vlautin che continua a sporcare con la realtà le sue canzoni colma di loosers, squattrinati ubriachi, giocatori incalliti, gangsters, donne che non amano molto i loro figli, tra bar, motel, truck-stop coffee e anfratti di un America che non abbassa mai la saracinesca.
Brani scritti durante il tour di Thirteen City e sulla strada Vlautin ha saputo della morta di sua madre e con i postumi di un grave infortunio che lo ha costretto a letto per molti mesi, quel periodo triste ed introspettivo non poteva che riversarlo nel suo nuovo ‘romanzo’ in musica. Un operazione intellettualmente sempre stimolante ma che si svolge stavolta su terreni che sembrano rischiosi, scivolosi, ed infatti non sempre riesce a mettere pienamente d'accordo le intenzioni con i risultati: il piano e la soffusa dolcezza della title-track sulle disamine di una coppia che gioca con il fato nella speranza di un giorno migliore e l’amicizia di You Can Move Back Here illuminano il passato dei Richmond Fontaine però contagiato da pop e tastiere anche nella breve (per fortuna) strumentale Northwest (meglio allora la tristezza di Sitting Outside my Dad’s Old House) o nella nostalgica ma scialba Watch Out.
I tempi deprimenti e la paura costituiscono l’immaginario della band che la meravigliosa tromba di Paul Brainard in The Boyfriends ti si incolla addosso e d’altronde non sono certo gli affreschi di persone che girano a vuoto a mancare, da Lonnie, a 43, a Ruby And Lou, alla vignetta di A Letter To The Patron Saint Of Nurses, alle persone che non sanno cosa stanno cercando come descrive la sinuosa The Pull, brillante disamina della scorrere lento della vita di un trentenne boxer caduto in un baratro che lo ha svuotato di ogni senso logico, che sembra essere poi la particolarità della band, la vita dura che non simpatizza per il lieto fine.
Ma il vero peccato e dimenticarsi dell’elettrico, piace Maybe We Were Both Born Blue o la schitarrata nervosa di 43 immersa nella paranoia di un divorzio, tra conti da pagare e la tentazione di intraprendere strade dal facile guadagno nell’illegalità o quel filino country aggiunto nella tosta Lonnie, ma francamente la cupa malinconia nel finale del cello di Ruby And Lou, la strumentale Walking Back To Our Place At 3 A.M. e la rabbiosa giovane ragazza madre protagonista dei 6 claustrofobici minuti di Two Alone non bastano più come in passato, stavolta lo sprofondare in quella sottile sofferenza interiore che nasce dallo scontro tra un dovere che si sente necessario e le ragioni di esistere degli altri ha perso qualcosa. Per strada, naturalmente.