DAMNWELLS (Bastards of the Beat)
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  Recensione del  31/05/2004
    

Un percorso decisamente tortuoso e tuttavia destinato ad un parziale lieto fine quello dei Damnwells, brillante quartetto newyorkese dal vivace sound chitarristico a cavallo tra power-pop e roots-rock di solida fattura. Le complicate dinamiche del moderno music business sono in qualche modo evidenziate dallo strano destino di dischi come Bastards of the Beat, il loro esordio sulla lunga distanza (dopo un paio di interessanti ep a livello indipendente), che dopo avere conosciuto una pubblicazione semi-ufficiale lo scorso autunno ed essere stato venduto nel corso dei loro live show, trova oggi una distribuzione più consona attraverso il marchio Epic.
Un segno dei tempi se i Damnwells hanno dovuto faticare così a lungo per scorgere uno spiraglio, alleandosi con nuove etichette (la Sixthman in precedenza) ed abbracciando distribuzioni alternative. Una decina di anni fa o poco più queste canzoni avrebbero trovato orecchie più sensibili, si sarebbero certamente spalancate le porte dei circuiti delle college-radio, magari sarebbero approdate immediatamente sui tavoli di qualche major discografica; oggi invece si gioca in ritirata, sperando nel colpo di fortuna e cercando persino di etichettare i Damnwells come una band di Americana.
Niente di più fuorviante, sentendo il guitar-rock frizzante e maliziosamente melodico che i Damnwel rendono in tutto il suo splendore, senza il timore di assomigliare ad altre rock'n'roll band che hanno tentato la fortuna prima di loro. Bastards of the Beat è un titolo che coglie con uno sguardo beffardo le radici delle canzoni di Alex Dezen (voce, chitarre e piano) e riassume alla perfezione un pop-rock realmente "imbastardito", figlio tanto dei Replacements (si saranno forse ispirati alla mitica Bastards of Young di questi ultimi?) quanto dei Cheap Trick (con cui sono anche andati in tour). Uno squisito intruglio power-pop a tratti irresistibile (Sleepsinging, The Sound), che viaggia a cavallo di un rock'n'roll sbarazzino e chitarristico, contaminato da una malinconia di fondo che non li abbandona mai.
I testi non avranno certo uno spessore indimenticabile, ma sanno cogliere i dubbi del la gioventù americana e al resto ci pensano le chitarre (Dezen insieme a quelle di David Chernis), che saccheggiano le melodie dei Big Star (Kiss Catastrophe, New Delhi, I’ll Be Around, con una deliziosa aggiunta dei fiati di Aaron Miller), la sfacciataggine elettrica dei primi Soul Asylum e del Paul Westerberg solista (una virulenta What You Get), il moderno fiato roots degli Wilco (l'acustica I Will Keep The Bad Things From You, Texas) e le incarnazioni accessorie di questi ultimi, ovvero i mai dimenticati Golden Smog (Electric Harmony), anche se la rock band più affine nello spirito ai Damnwells sembrano essere i misconosciuti Honeydogs di Minneapolis, con cui condividono le brillanti sonorità roots-pop. Con questa girandola di nomi c'è da perdere la testa, eppure convince eccome Bastards of the Beat, senza mostrarsi troppo derivativo.